Articolo di Donatella Sasso per eastjournal.net

 

Magda Szabó è forse la scrittrice che l’Ungheria del Novecento, transitata non senza contraddizioni nel nuovo millennio, ha più amato. Nata a Debrecen il 5 ottobre 1917, quando l’Impero austro-ungarico saggiava sui campi di battaglia l’imminente conclusione della sua gloriosa parabola, Magda Szabó ha attraversato quasi un secolo di vita, è morta il 19 novembre 2007, registrando le tragedie della sua nazione, senza mai sentirsene del tutto estranea. Anche quando, durante i primi anni del regime comunista sotto la pesante influenza sovietica, fu licenziata, lavorava per il ministero della Religione e dell’Educazione, le fu impedito di dedicarsi alla scrittura delle sue poesie, esordì, infatti, come poetessa, e le sue pubblicazioni furono congelate, non se ne volle andare. A differenza di altri colleghi, come il notissimo Sándor Márai che scelse la via dell’esilio, Magda Szabó preferì rimanere nella terra dei suoi amati genitori a fianco dell’altrettanto amato marito. Quasi sicuramente in quegli anni cupi si salvò grazie alle sue doti introspettive, alla capacità di cogliere nella vita quotidiana magie e impercettibili contraddizioni, al coraggio di guardare senza esitazioni anche agli atteggiamenti meno nobili quali la gelosia, la misantropia, l’egoismo.

E quelle stesse doti che la salvarono negli anni dell’esilio culturale la resero invisa al regime: troppo intimista, sgraziatamente borghese, intellettuale eccessivamente raffinata. Si salverà dopo i primi tempi dell’epoca di János Kádár, seguiti alla drammatica invasione sovietica nell’autunno del 1956 e alla cruenta epurazione di Imre Nagy, quando la censura si allenterà e Szabó acquisterà credito presso i critici e affetto presso i lettori. Ma sarà soprattutto il giudizio positivo di Hermann Hesse sul suo primo romanzo Affresco che le aprirà le porte del riconoscimento internazionale.

Magda Szabó nacque in un’epoca quasi magica ed era solita presentarsi come un personaggio da fiaba, emerso dal quel mondo così desiderabile e raro che si suole chiamare “infanzia felice”. Di questo narrerà in molti suoi romanzi, non negando di aver lottato per tutta la vita nel tentativo di liberarsi dalle promesse non mantenute che ogni bambino troppo protetto reca con sé. Genitori affettuosi e amanti delle lettere, della musica e del latino le diedero le basi culturali per affrontare non solo gli studi e il lavoro, ma anche molte situazioni difficili, donandole però anche il fardello del credersi al riparo dai dolori del mondo. Ed ecco invece affiorare, inesorabili, inevitabili, con l’ingresso nel prestigioso istituto scolastico Dóczi, le prime invidie e gli screzi con le coetanee, il dolore per l’esclusione da un gioco, un’amicizia, un privilegio, ma anche i difetti che non nascose, né esaltò: l’indifferenza, le incomprensioni affettive, talvolta persino l’odio.

L’altra Eszter, romanzo del 1959, è la storia di una donna ossessionata dalla gelosia verso un’amica d’infanzia, che insegue per tutta la vita alla ricerca di un improbabile risarcimento. Nella Ballata di Iza (1963) una figlia assillata dalla sua carriera di medico non comprende le reali esigenze della madre anziana e da poco vedova, strappandola dal suo paese natale e portandola in una Budapest troppo moderna e caotica. Altri romanzi sono più strettamente autobiografici, anche se tutti sono pervasi dalle sue sensazioni più intime oltre che da persone ed eventi che contrassegnarono la sua esistenza.

Fra tutti i ricordi, il più doloroso, l’unico tragicamente irrimediabile, è la deportazione degli ebrei ungheresi, l’ultima in ordine di tempo nell’Europa sotto il giogo nazista, di cui la scrittrice fu testimone prima inconsapevole e poi impotente. L’Ungheria, alleata delle forze dell’Asse, nel 1944 tentò un armistizio unilaterale con gli Alleati per uscire dalla guerra, ma fu occupata dalla Germania nazista che impose, dopo la destituzione del reggente Miklós Horty, il governo filonazista di Ferenc Szálasi e avviò la violenta campagna di uccisioni e deportazioni degli ebrei. Magda Szabó, che in quel periodo insegnava in un ginnasio femminile di provincia, comprese il dramma delle leggi razziali, delle stelle gialle sulle divise delle sue allieve, ma fino all’ultimo non capì la vera portata della tragedia imminente.

I fantasmi di quelle giovani destinate allo sterminio ritornano più volte, in particolare in tre fra i romanzi più noti e amati dai lettori: Via Katalin (1969), La porta (1987) e Abigail (1970). Nel primo una bambina ebrea, Henriett, nascosta dai vicini di casa, viene scoperta e uccisa mentre tenta la fuga, ma si trasfigura in uno spettro che aleggia sulle vite di chi ha cercato di salvarla, tentando di sciogliere i nodi di esistenze sopravvissute alla guerra, ma oppresse dal nuovo regime; nel secondo la bambina salvata in tempo di guerra da Emerenc, mirabile figura di donna, semplice addetta alle pulizie dall’animo adamantino, non è all’altezza del debito di riconoscenza verso la sua salvatrice. In Abigail, da cui fu tratto un film per la televisione sceneggiato dalla stessa Szabó, romanzo molto strutturato con personaggi ben delineati, che rivelano tutti una doppia identità, si conclude con la salvezza materiale delle ragazze ebree del collegio Matula e con la salvezza simbolica della protagonista, alter ego della scrittrice, che scende in extremis dal suo piedistallo di privilegiata e si cala nella realtà.

In un saggio del 1980, in cui Magda Szabó ricostruiva la genesi del romanzo, svelò il senso della sua vergogna postuma e le ragioni grazie alle quali Abigail prese vita: «Il motivo per cui il romanzo e il film vennero scritti è ciò che nel linguaggio tecnico del teatro viene chiamato reazione ritardata. Qualcuno si diverte un mondo, ridacchia, poi un tale lo rimprovera, gli dà del mascalzone, per un pezzo lui continua a sorridere, passa un po’ di tempo prima che prenda coscienza del complimento che gli è stato rivolto, dal suo viso sorridente scompare l’allegria, con un paio di fasi di ritardo, è vero, ma alla fine ha afferrato: gli hanno detto cosa pensano di lui». Magda Szabó, come tanti altri suoi contemporanei, non colse la gravità di quanto accadeva intorno a lei. Abigail è insieme un atto di accusa contro chi rimase in disparte e un riconoscimento verso quanti invece si adoperarono attivamente per salvare vite umane, ma sicuramente rappresenta anche il monito più vivo che la scrittrice ungherese ha lasciato ai suoi lettori: non siate mai in ritardo, per quanto possibile, nelle vostre reazioni!