La diciottesima notte dopo capodanno –il ventiquattresimo giorno dell’assedio di Budapest-, una giovane donna decise di abbandonare il rifugio in un grande edificio accerchiato nel cuore della città, di attraversare la strada trasformata in campo di battaglia e di raggiungere, in ogni modo e a qualsiasi costo, l’uomo che quattro settimane prima era stato murato, insieme a cinque compagni, in un angusto scantinato dell’edificio di fronte.

Così inizia il racconto di Sándor Márai (nella traduzione pubblicata da Adelphi, di Laura Sgarioto), dal titolo Liberazione, parola sfuggente (resa ancor più ambigua dal suo uso storico-politico), sul cui profondo significato la protagonista della storia, Erzsébet, si interroga in tutto il dipanarsi della sua vicenda.

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Liberazione edito da Adelphi

Márai (che, tanto per dare un’idea del personaggio, aveva ufficialmente rinunciato al suo cognome tedesco Grosschmid, nel 1939, al culmine dell’ondata filonazista), nato nel 1900, a Kassa (oggi Kosice) nell’allora Alta Ungheria (oggi Slovacchia), strappata a Budapest dal trattato del Trianon del 1920, è un autore borghese, che crede nella sintesi fra valori europei liberali borghesi e istanze sociali, cui il suo paese, l’Ungheria baronale horthysta, ha preferito, a suo dire, rinunciare, anche a costo di perdere quel poco che la Grande Guerra aveva lasciato. Egli è appunto un autore borghese, e non vuole essere altro: drammaturgo, giornalista, romanziere, descrive vicende borghesi, personaggi borghesi, spesso ispirati alla sua vecchia vita nell’Alta Ungheria.

Márai, ha un’abilità unica di introspezione psicologica, nell’animo dell’uomo borghese del suo tempo, del puro materiale umano, spoglio di un ruolo preciso, di fini inquadrati, di fede fanatica, l’uomo figlio del primo trentennio del secolo scorso, figlio di uno stile di vita che in Liberazione si è ormai sgretolato negli anni della guerra. Una vita di cui Erzsébet sembra essere un pallido, svuotato e indebolito fantasma, oltre ad essere un personaggio in carne ed ossa, realissimo, forse incontrato davvero da Márai, in qualche rifugio, durante i bombardamenti. Erzsébet è forse immagine di quello spirito che a Márai, senzatetto come milioni di ungheresi nel 1945, ritrova fra le macerie di casa sua in quel che resta della sua biblioteca: i Ricordi di Marco Aurelio, o che inaspettatamente gli restituisce un soldato dell’Armata Rossa che lo guarda con rispetto perché “uno scrittore è la voce del popolo”.

Infatti ciò che era proprio dello spirito umano e umanitario, in cui credeva la vecchia Europa illuminista, è scomparso sotto le bombe che hanno raso al suolo una delle più belle capitali d’Europa, mentre nelle sue strade le crocifrecciate macellano chi è rimasto della vecchia splendente “Judapest”. In quelle strade Erzsébet, forse fanciulla eroica di qualche storia cavalleresca che scavalca i secoli, una ragazza come tante ed unica, vividamente tratteggiata dall’abile “sarto” Márai, abile come pochissimi scrittori maschili ad intessere personaggi femminili perfetti nella loro verità umana, soprannaturali come solo le donne possono essere, Erzsébet scappa dal suo rifugio perché, fosse l’ultima cosa che farà, vuole ritrovare il padre, lasciato prima dell’assedio, in un nascondiglio sicuro dai macellai di Szálasi.

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Sándor Márai

Come tanti personaggi di Márai, egli, il padre di Erzsébet, è un impiegato pubblico, che ha fatto qualcosa di buono per qualcuno che non avrebbe dovuto aiutare, che non ha giurato fedeltà al nuovo regime imposto da Hitler, dopo l’arresto e la deportazione del reggente e ammiraglio Horthy. Erzsébet è vestita di stracci, sporca, affamata, in compagnia dei suoi pensieri (al punto che il racconto sembra sempre essere in punto di avvolgerci nel monologo interiore della protagonista, più che in una narrazione esterna, tanto Márai è assorbito nella vicenda, trascinando con sé il lettore) eppure lei vuole solo trovare suo padre, l’unico membro rimasto della sua famiglia.

Liberazione potrebbe anche essere una lunga riflessione sul senso della vita umana, sull’idea di libertà, che alla fine emerge come libertà dello spirito. L’uomo è libero se vuole esserlo, se non rinuncia al suo spirito nonostante la condizione che vive, nonostante il mondo che gli crolla letteralmente addosso, se accetta sé stesso e si specchia negli altri, se non rinuncia a cercare un vecchio padre.

L’umanità intorno ad Erzsébet è ormai allo sbando. E’ un’umanità che si lamenta di un malato che nell’estrema realtà della vita umana, smarrita dalla guerra, muore di cancro, nonostante migliaia di persone di ogni età muoiano sotto le bombe, passando gli ultimi momenti della sua vita in un rifugio dove nessuno, infastidito dalla sua “ingombrante presenza”, gli dona uno sguardo compassionevole. È un’umanità per la quale Márai (in effetti alter ego maschile di Erzsébet, che scappa dalla penna dell’autore e lo sovrasta) ha pietà e disgusto, e che, inconsapevole, si presta ad abbandonare per sempre, con l’avvento del regime sovietico alle porte, senza però trovare mai più né un’altra lingua né un’altra vera patria. Ma è l’umanità che Erzsébet non nega persino al soldato russo che la stupra vigliaccamente, nel quale lei si specchia e verso il quale prova persino una sorta di tenerezza da sorella maggiore, che vale tutto il libro, intriso della più profonda essenza di Márai che si possa trovare, che né nei geniali romanzi del periodo prima della guerra, né nelle altissime e pregiatissime pagine autobiografiche –Confessioni di un borghese, Volevo tacere, Terra, terra!, Il sangue di san Gennaro– che scriverà fino al suicidio (L’ultimo dono, San Diego, 1989) si può respirare come in questo racconto lungo, pensato e scritto febbrilmente, in fuga e da un rifugio all’altro.

Poveretto” – pensa Erzsébet del soldato russo – “è questo che ha avuto, questo corpo pieno di sporcizia. Questo corpo sudicio maleodorante, questi capelli arruffati, questo corpo di donna macerato nella sporcizia di ventiquattro giorni di assedio. Ed è per questo che è arrivato fin qua dalla Siberia?”.

E ancora: “Io quando sarò libera? Che cosa sarà mai la libertà?” pensa Erzsébet conclusivamente, fissando la nebbia, il fumo e il fuoco, in una immagine apocalittica che ci dice tutto sull’uomo, sulla libertà, sulla crudeltà.

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La Statua della libertà a Budapest

La guerra è tutto quello che è successo, questo morto, e lei, Erzsébet, che ormai è libera, ma non sa che farsene di questa libertà, e come lei gli altri, neppure il paralitico laggiù nello scantinato sa che farsene della libertà, perché è un essere umano!

Il 13 febbraio l’Armata Rossa sottometteva completamente Budapest, dopo quasi cinquanta giorni di assedio, durissimi e devastanti, troppo tardi, nell’ottobre 1944, Horthy aveva cercato di negoziare una pace con Mosca e a niente erano serviti gli sforzi personali di Bethlen, presso il generale Tolbuchin, egli stesso sarebbe stato deportato di lì a poco in Russia, scomparendo.

Il resto è storia, ma la Storia è fatta di storie, di soffi che partecipano a un grande vento, che vogliono diventare letteratura, non statistiche, algoritmi, tecnicismi, la Storia umana resiste a quel modo di fare storia, e palpita nelle pagine di Márai, come palpitò la storia romana nelle pagine di Mommsen o quella spagnola negli scritti di Madariaga, spiriti grandi e liberi dalla schiavitù delle ideologie, delle parole squadrate disumanizzanti e del nuovo spirito quantitativo. Non si perda l’occasione quindi di tuffarsi in quelle poche ma intensissime infinite pagine di questo piccolo grande capolavoro di Sándor Márai, Liberazione.

 

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