Dezső (Desiderio) Kosztolányi nacque il 29 marzo 1885 a Szabadka (oggi Subotica), una città di provincia, nell’allora pianura ungherese meridionale, oggi Serbia. Figlio del direttore del ginnasio locale e della figlia di un farmacista tedesco.

Szabadka può essere una specie di Recanati se la poesia filosofica e asciutta di Kosztolányi si può ancora accostare, come da molti traduttori italiani del passato è stato fatto, alla poesia di Leopardi. Kosztolányi fu infatti forse il poeta più universale della letteratura ungherese, per questo Guglielmo Capacchi ha scritto di lui: “Il pubblico capì, o forse soltanto avvertì confusamente tutta la portata dell’opera di Kosztolányi”. Il suo genio fu senz’altro ammirato da pochi suoi contemporanei cosmopoliti e da alcuni grandi autori del Novecento ungherese, della generazione successiva, come François Fejtő, Sándor Márai e Imre Kertész (tre grandi autori di prosa), nonché dal magnifico surrealista Peter Eszterházy, che diede al suo ultimo libro il titolo “Esti”, un omaggio al racconto picaresco kosztolaniano “Kornel Esti”.

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Dezső Kosztolányi in una delle molte foto d’epoca di repertorio

Ebbe ammiratori all’estero, ma fu senz’altro offuscato dai suoi contemporanei, da Attila József, e ancor più da Endre Ady, dalla loro violenta ribellione dissacratrice, dal messianismo teso a risvegliare “la razza bella e infelice”. Ady: un poeta maledetto, e proletario, che non poté lasciare nessuno indifferente, tra chi lo odiò e chi lo amò, e che in fondo si collocò nella grande tradizione della poesia patriottica magiara. Kosztolányi canta le lacrime dell’uomo qualunque: senza le lacrime non vedo, sono cieco.

L’eterno studente di filosofia e simbolista Kosztolányi, “malato di bellezza”, appariva più come Márai un pacato e sobrio rappresentante della borghesia illuminata e decaduta, di fine secolo, arguto, scettico, cinico e malinconico rappresentante di un mondo perduto, amante del latino, dell’Italia e di Marco Aurelio, senza impetuosità, enfasi, eccitazione, nemico della prolissità.

Decadente ma nemico dei decadenti, prolifico autore per giornali ed editori di varia fede, interessato al mistero delle cose essenziali ed elementari più che ai partiti, senza peccare di misticismo o di razionalismo, tocca le corde più profonde della sensibilità dell’uomo borghese, schiacciato dalle masse, dalle ideologie, dalla storia del secolo scorso, pur vedendo e sapendo dentro di sé quello che sarebbe giusto e come vorrebbe vivere, lasciando vivere, come se tutto in questo mondo inquieto potesse essere dominato dalla parola saggia e semplice, dalla cultura generosa e aperta e dal sereno buon senso. Invece tutto è dominato dalle tenebre di un ripetersi inesorabile di errori devastanti in una corrente indomabile, foriera di sciagure a cui la ragione non sa arrendersi.

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Inaugurazione del monumento a Kosztolányi nella sua città natale alla presenza di Orbán

Kosztolányi vorrebbe capire le persone e comunicare attraverso i colori. Sa di essere un poeta fuori tempo, dimenticato, la poesia “Com’è commovente un cattivo poeta” non si sa se sia da leggere più come satira verso i suoi contemporanei o come sferzante autoironia. Infatti la conclusione è che è il cattivo poeta, il vero poeta, lontano dalle folle di incensatori.

L’uomo è santo. E che mai resta di lui? Allegro vagabondo che ha fatto una scappata nei dintorni. Di lui resta in un angolo il bastone/con cui andava a spasso in primavera/una parola che soleva dire/e il suo respiro su un vestito smesso. Sono soltanto carne e ossa, macchina è la mia testa, ma durante il mio cammino ho pianto e riso, io proprio io, ricordo. Coloro che sono scomparsi si portarono via lembi del mio animo … non ho più niente eppure è prodigioso, mi sento ricco come un usuraio …  Ogni colore impallidisce in me e non ho più motivo di parlare. Sarebbe bello vivere ma gli alberi laggiù mi fanno già dei cenni con le mani dorate, nella “colazione autunnale” della vita.

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Panoramica su Szabadka (oggi Subotica, in Serbia) città natale di Kosztolanyi

Alcune poesie sono un appello alla pace e all’unione europea, attraverso la poesia “Le madri” raccontò il dolore della guerra: le madri hanno un solco profondo sotto gli occhi dove gli spettri dormono …  si precipitano nella stanza che era del figlio, nel letto vuoto cercano il figlio ormai tanto lontano, nel cielo vuoto cercano un Dio, che non si trova in nessun luogo. Nella poesia “Europa” scrisse dopo la Grande Guerra un appello più che mai attuale oggi, e veniva proprio dall’Ungheria: Europa. In questo secolo di cieco tumultare, se altri suonano a morto io ti auguro buon mattino.

Nella prima raccolta “Fra quattro mura”, nel suo dialogo con la natura, nella provincia remota, e con gli alberi dell’infanzia, si colgono anche echi pascoliani, il crepuscolo invernale diventa metafora dell’avventura umana nella storia: sul vetro di una finestra offuscato lotta il raggio con l’ombra cinerina, e tutto accade come in una piccola stazione di provincia, dove tutto attende quel treno che deve arrivare, la luce di lampade batte sui volti, gli addetti stan fermi in silenzio in mezzo ai binari. Come chi cadde in mezzo alle rotaie/dico addio all’infinito, alla mia vita/perché sono solo favole remote In mezzo alle rotaie e tra le ruote/il tempo triste sfreccia sul mio capo …  Per un attimo stringo ciò che è eterno/una farfalla, un sogno, gioie, orrori.

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Kosztolanyi (al centro) in compagnia del cugino, e celebre scrittore, Geza Csath (sinistra)

Morì il 3 novembre del 1936, dopo anni da muto e immobile, per un tumore incurabile al palato, scrivendo le ultime poesie grazie a qualche amico che gli accompagnava la mano.

Colui che è morto oggi è antico come i soldati di Alessandro o di Serse.

Sii buona mamma eterna oscurità.

Tra le opere di Kosztolányi in italiano è stato tradotto dalla Casa editrice Anfora il testo: Anna édes.

“Anna édes” di Kosztolányi

“Nel tumultuoso periodo del primo dopoguerra ungherese, tra rivoluzioni e controrivoluzioni, in un tranquillo quartiere di Budapest, una famiglia borghese e benestante assume una giovane cameriera, Anna. Il quotidiano sembrerebbe procedere sereno se non fosse che lentamente la dura condizione di serva corrode l’animo docile e benevolente della ragazza, che si trova persino sedotta e abbandonata da un membro della famiglia. Per i padroni il culmine sarà inatteso e disgraziato.”

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