Se diamo ascolto allo storico ungherese medievale Kezai Simon, il primo mitico re ungherese fu Attila, in realtà re degli unni, un popolo uralo-altaico su cui gli storici ungheresi medievali e rinascimentali fantasticarono al punto da far discendere dai suoi cavalieri il popolo ungherese.

In realtà non è poi così fantastica la parentela fra gli uomini di Attila e gli uomini di Arpad, dato che anche questi ultimi, non-indoeuropei, costruivano accampamenti simili, non scendevano mai da cavallo e cuocevano la carne tenendola fra le loro cosce e il dorso del cavallo. Ulteriori “prove” di una parentela unno-ungarica sarebbero date dal fatto che anche gli ungheresi provenivano dalla stessa area degli unni (la leggendaria “Turania”)  e si andarono ad insediare, secoli dopo la misteriosa scomparsa di Attila, proprio nello stesso bacino danubiano, dove si era già stabilito il re degli unni.

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Attila dipinto da Eugène Delacroix 

Re che scompare appunto improvvisamente dalla storia, infinitizzandosi ed eternizzandosi (come tutte le “stars”), continuando ad essere venerato come mitico e misterioso capostipite da molti ungheresi (come è testimoniato anche dall’uso del nome Attila), sebbene abbia seminato il panico in Europa occidentale lasciando ancora, a distanza di più di mille anni, traccia di sé in proverbi spaventosi come “Dove passa Attila non cresce più un filo d’erba”.

Re che scompare lasciando tracce profonde nell’immaginario dei suoi presunti discendenti, come una sorta di saudade danubiana, ante-litteram: il complesso del re assente (come quando l’imperatore del Portogallo lasciò il Brasile dove si era rifugiato da Napoleone) e della potenza perduta.

Non sorprende che questo complesso abbia anche influenzato il destino della storia ungherese, portando a momenti di depressione mistica collettiva dopo periodi particolarmente tragici, come le devastazioni mongole o la catastrofica battaglia di Mohacs contro i turchi. Ad essi seguí una lunga lista di pretendenti al trono: i Zapolya, i Thokoly, i Rakoczi, i Bathory e i Bethlen fino al 1867, anno in cui la corona ungherese di Santo Stefano fu consegnata a Francesco Giuseppe, dopo anni di repressione. Infine dopo la prima guerra mondiale la corona tornò ad essere vacante, nel lungo periodo di reggenza dell’ammiraglio senza flotta Horthy, per due volte minacciato (nel ’20 e nel ’21) dal pretendente Carlo d’Asburgo.

Il primo dopoguerra fu un momento tremendo. Portò poeti come Jozsef Attila a scrivere che il piatto nazionale era un piatto vuoto e Ady Endre a dire: “Dio non abbia pietà, noi siamo ungheresi”. Già Kosztolany Dezso aveva scritto che qualsiasi cosa fosse esistita, il vuoto ne avrebbe preso il posto; Odon von Horvath (austriaco d’adozione) descrisse in un suo romanzo “La gioventù senza Dio”, tanto per dare un’idea del momento e del senso annichilente di catastrofe. Sissi e suo figlio Rodolfo, furono grandi amici dell’Ungheria e in particolare Rodolfo fu, nell’immaginario, un mancato sovrano d’Ungheria.

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Budapest al termine della guerra

Sul finire della Grande Guerra, mentre il cugino di Francesco Giuseppe, soprannominato Joe Habsburg, offriva la corona ai Windsor, il discendente di Batthyany Lajos (capo della rivoluzione ungherese ucciso nel 1849), Batthyany Ervin fondò una delle più importanti e autentiche comunità anarchiche della storia a Bogote. Nello stesso momento anche due suoi nobilissimi parenti optavano per prendere la strada della propria spogliazione redentiva, per salvare in extremis la nazione in sfacelo: Eszterhazy Moric (nonno dello scrittore Peter e del calciatore Marton, e nipote di Miklos, mecenate di Haydn) e suo cugino Karoly Mihaly, capi della nazione sconfitta e che, a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro, avevano cercato senza successo di effettuare una grande riforma agraria e sociale.

Venivano da famiglie che possedevano feudi dall’estensione pari ad alcune regioni odierne, possedevano i villaggi e gli uomini che vi abitavano, vivevano negli stessi agi ed eccessi dei vip odierni (salvo camere che a stento riscaldate raggiungevano i quindici gradi), ma che si erano anche rovinate per formare geni musicali (come Liszt, di una poverissima famiglia contadina), artistici, letterari, ridistribuendo in cultura e bellezze architettoniche quanto nessun vip odierno farebbe.

Fu la tragica repressione del 1956, raccontata dal nostro Indro Montanelli, che dimostrò, come nelle poesie quarantottesche di Petöfi, che i moti di libertà non erano estinti in quel lembo d’Europa, a restituire per vie tortuose e nefaste un re all’Ungheria, e la sua Corona di Santo Stefano.

Quel tragico momento mise al potere infatti una sorta di nuovo “re ungherese”, aprendo a un nuovo e raro momento di “espansione” nella storia ungherese moderna e contemporanea. Fu Kadar Janos, prima repressore del ’56 poi “padre della patria”, a ricostruire un’idea nazionale forte di Ungheria, aprendola al commercio internazionale e rendendola il più ricco fra i Paesi del Patto di Varsavia. Kadar finse di battere i pugni sul tavolo con i russi, ricevendo onori dalla Thatcher e da Carter e Reagan, fino a riportare dagli USA la Corona di Santo Stefano nel 1978, e ad essere riconosciuto come guida benevola di una transizione sorprendentemente pacifica alla democrazia, già dal 1988.

Ma quale fu il costo di quella stagione in termini di repressione? Alto, soprattutto negli anni ’60. L’Ungheria ha tuttavia lo spirito del Sindbad di Krudy, nobile, raffinato e gaudente e dalle ceneri della sconfitta risorge con nuova voglia nomade di abbracciare il mondo e far conoscere il suo lato migliore, che oggi ci si sforza di non vedere.

 
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