Intervista di Filippo Marchini

In occasione della Festa Nazionale del 15 Marzo Ungheria News ha intervistato il prof. László Pete, storico ed italianista, dell’Università di Debrecen.

Prof. Pete, la prima domanda è ispirata ad una situazione capitatami di frequente: immagini di incontrare un turista il 15 Marzo, che le chiede cosa significano tutti quei tricolori lungo le strade, alle finestre, i disegni sulle vetrate delle scuole…

La ricorrenza della rivoluzione del 15 marzo 1848 è una delle feste nazionali più importanti dell’Ungheria che ricorda una fase decisiva della storia ungherese. Dopo il trionfo della rivoluzione l’imperatore, re d’Ungheria, sancì i trentuno articoli di legge stesi dalla Dieta, grazie ai quali l’Ungheria divenne, da Paese feudale, uno Stato borghese: si insediò un governo responsabile (quello di Batthyány), un’assemblea nazionale a rappresentanza popolare, mentre l’economia di mercato e la società civile si avviavano verso il libero sviluppo.

Lei è considerato uno dei maggiori esperti dei rapporti tra Italia e Ungheria di quel periodo. Chi furono i protagonisti ed i promotori dell’amicizia magiaro-italica?

Nel 1848–49 italiani e ungheresi lottarono contro un nemico comune, per un fine identico: ottenere l’indipendenza e la libertà dagli Asburgo. I soldati dei reggimenti italiani Ceccopieri e Zanini, provenienti rispettivamente dai dintorni di Lodi e dalle province del Veneto, i quali, inquadrati nell’esercito austriaco, prestavano servizio nella capitale ungherese, avevano seguito inizialmente con simpatia gli avvenimenti della rivoluzione ungherese. Secondo un testimone, i militari italiani avevano festeggiato animatamente la vittoria della rivoluzione a Pest: “Quando la città era illuminata, passai presso la caserma Károly e udii le grida provenienti dai soldati italiani che cantavano nella loro lingua, interrompendo le canzoni con «éljen» ed «evviva», come se provenissero da leoni chiusi in una gabbia”. Gli ufficiali ostili alla causa ungherese, in maggioranza tedeschi, croati e cechi, confermarono ripetutamente al comandante militare di Buda di “non poter garantire per i loro uomini in caso di lotta armata, perché essi avrebbero potuto sparare contro di loro e poi passare dalla parte degli ungheresi”. Considerando che più della metà dei 7.500 militari regolari stanziati in quel periodo nella capitale era composta di soldati dei reggimenti Ceccopieri e Zanini, non mi sembra esagerato affermare che alla vittoria della rivoluzione delle «idi di marzo», avvenuta senza spargimento di sangue, contribuirono in maniera determinante gli italiani di convinzioni ungarofile.

Numerosi patrioti italiani e ungheresi, indipendentemente dal Paese di provenienza, colsero il messaggio comune della lotta per la libertà. Questo ideale motivò sia i più di mille soldati italiani – inquadrati nei reggimenti austriaci stanziati in Ungheria – che decisero di schierarsi al fianco degli ungheresi, sia centinaia di soldati ungheresi – inquadrati nei reggimenti austriaci dislocati in Italia – che disertarono l’esercito imperiale per andare a lottare con gli italiani. Mentre la Legione italiana, che annoverava dunque circa 1100 soldati ed era comandata dal colonnello Alessandro Monti, combatteva eroicamente in Ungheria nelle lotte dell’agosto 1849, per contro la Legione Ungherese di 110 soldati organizzata da István Türr in Piemonte e come pure quella di 60 soldati comandata da Lajos Winkler a Venezia, data la piega delle operazioni militari in Italia (Sconfitta di Novara n.d.r.), non ebbero la possibilità di dar prova della loro prodezza sui campi di battaglia. Il contrario di quel che sarebbe avvenuto un decennio più tardi, quando centinaia di Ungheresi poterono combattere al fianco di Giuseppe Garibaldi.

È da ricordare anche un fatto diplomatico unico. Il riconoscimento ufficiale del barone Lajos Splény in Piemonte al rango d’ambasciatore fu un avvenimento eccezionale, equivalente all’accettazione di un’Ungheria indipendente: fu l’unico, durante tutto il periodo della lotta per la libertà, ad essere riconosciuto ufficialmente come ambasciatore ungherese, ad essere ricevuto da una potenza estera e, con senso di reciprocità, ricambiato con un effettivo scambio di rappresentanze. Il nuovo ambasciatore del Piemonte in Ungheria era il barone Alessandro Monti, futuro comandante della Legione italiana che combatteva al fianco di Kossuth.

La legione ungherese

Quali furono le classi sociali che diedero vita alla “szabadságharc” del 1848-49 in Ungheria?

Il programma di Lajos Kossuth, elaborato nei decenni 1830-1840, prevedeva che la trasformazione borghese ungherese, in mancanza di una forte classe media di riferimento, avvenisse sotto l’egida dell’aristocrazia magiara. Il 15 marzo insorse la popolazione di Pest, guidata dai giovani intellettuali, fra cui il poeta Sándor Petőfi e lo scrittore Mór Jókai, mentre a Presburgo, sede della Dieta, Lajos Kossuth indusse gli Ordini a chiedere fermamente al Re l’attuazione sollecita delle riforme. Non appena apprese la notizia dell’attacco ad opera dell’esercito guidato dal bano di Croazia, Josip Jelačić, Kossuth partì per la Grande Pianura a scopo di reclutamento. Durante queste campagne i suoi discorsi furono seguiti da folle sterminate. Probabilmente nacque allora – seguendo le note di un vecchio canto militare – il cosiddetto “Canto di Kossuth”. Si presume che anche la sua popolarità, da dove nacque poi il “culto di Kossuth”, sia riconducibile a quell’epoca. L’effettivo della Honvédség ungherese rispecchiava fedelmente la realtà sociale del Paese, l’80-85% dei soldati proveniva infatti dai contadini, prevalentemente da quelli più poveri.

La storiografia del Risorgimento Italiano ha recentemente riscoperto il ruolo delle donne: che funzione svolsero le donne ungheresi?

Le donne del periodo continuano ad essere costantemente ridotte al ruolo ad esse attribuito dalla parentela e dalla famiglia: moglie, figlie, madri e fidanzate. Molte di queste cercano di fuggire da tali schemi, ma in un sistema immaginato da uomini si permette difficilmente alle donne il riconoscimento di un ruolo diverso. Ciò nonostante il biennio 1848-1849 è una delle più significative occasioni di partecipazione delle donne all’azione pubblica. Esse, nonostante la poca o nulla visibilità politica, furono numerose, di diverse estrazioni sociali, impegnate in genere con funzioni di infermiere (la sorella minore di Kossuth, Zsuzsanna organizzò ben 72 ospedali), ma anche direttamente nei fatti d’arme veri e propri, travestite da uomo e sotto un nome maschile. Tra le circa 100 eroine invisibili vanno ricordate Júlia Bányai (sotto il nome Gyula) e Mária Lebstück (sotto il nome Karl), ambedue promosse tenenti.

Lei ha pubblicato di recente il volume “Olaszórszágig Italiatól”, “Dall’Italia all’Italia”, Usando due termini che sono praticamente sinonimi, ma con una sfumatura che sottolinea il passaggio dall’Italia come espressione “etno-geografica” a stato nazionale. Come siamo messi oggi, professore?

Nella costruzione dell’identità nazionale italiana il dualismo tra Nord e Sud ha giocato un ruolo molto importante, ancora oggi struttura gran parte dei discorsi politici e mediatici sullo stato del Paese. Uno dei motivi per scrivere questo libro è stato appunto quello di voler chiarire ai lettori ungheresi le origini di questo divario. Il volume, seguendo il tradizionale discorso storico italiano, presenta ed analizza un periodo che va dal 1748 al 1860/70, dedicando però un’attenzione molto più larga alla situazione e agli avvenimenti al Sud.

Il libro del prof.Pete

Possiamo dire che l’Ungheria è sempre stata Nazione, anche quando la storia l’ha deprivata del territorio,mentre l’Italia ha avuto il problema contrario, cioè di integrare in un’identità condivisa le conquiste territoriali dell’unificazione?

Esatto. Quella dell’Ungheria, dai tempi del Re Stefano il Santo, fondatore dello Stato, è la storia di un paese unito e centralizzato, mentre sulla Penisola Appenninica, com’è comunemente noto, la divisione politica ostacolava per più di mille anni la costruzione di una nazione.

Gli anniversari della Guerra per l’Indipendenza Ungherese sono ancora molto sentiti e celebrati, mentre in Italia nessuna ricorrenza del Risorgimento è Festa Nazionale, ad esclusione del 150mo dell’Unità dove il 17 Marzo lo fu “una tantum”. Nemmeno il IV Novembre lo è più da anni. Cosa ne pensa?

Il nostro è un popolo di lotte per la libertà (del resto tutte represse), oltre al 1848 basta pensare al 1956. Negli ultimi cinquecento anni, a cominciare dal XVI secolo, l’Ungheria ha subito quasi costantemente l’occupazione straniera: prima i Turchi, poi gli Austriaci e, infine, nel Novecento i Tedeschi e i Russi. La voglia di essere indipendenti è strettamente radicata nel sentimento nazionale ungherese. Appunto, un forte sentimento nazionale che, a mio parere, manca in Italia. Sembra che sia ancora attuale la frase pronunciata, probabilmente da Massimo d’Azeglio, all’indomani dell’unificazione: “Fatta l’Italia, dobbiamo fare gli Italiani.”

Riguardo alle eredità del 1848-49, in Ungheria si nota come sia ancora ben presente anche nel dibattito politico. Ad esempio Viktor Orbán chiuse la campagna elettorale delle elezioni politiche cantando la canzone “Kossuth Lajos azt üzente”, ma anche i partiti di opposizione rivendicano i lasciti della Rivoluzione con celebrazioni autonome e istanze su questioni, ad esempio, come la libertà di stampa. In Italia invece personaggi come Garibaldi e Mazzini, che un tempo furono ispiratori del sentimento popolare e di alcune forze politiche, sono scomparsi. Anzi, Garibaldi è sempre più vittima di una campagna di demitizzazione per non parlare del “revisionismo neoborbonico”. Cosa vede in questa differenza?

L’eredità del 1848-49 in Ungheria, oltre i motivi summenzionati, è fortemente presente nel comune immaginario politico anche perché durante il regime comunista il sentimento nazionale era brutalmente represso, la festa del 15 marzo quasi proibita. Il 15 marzo resta dunque il simbolo della libertà, e nello stesso tempo un atto di resistenza.

Quanto all’Italia, l’unificazione politica e militare della Penisola, realizzatasi con l’estensione del Regno di Sardegna entro un anno e mezzo tra la primavera del 1859 e l’autunno del 1860, avvenne senza il consenso completo ed omogeneo della popolazione del Sud, e poi seguì una protesta armata, un’accanita guerra civile, il brigantaggio. La storia, come si sa, viene sempre scritta dai vincitori, e la conseguenza che la storia dei vinti non fa parte ancora del discorso storico nazionale. È da tener presente che il “revisionismo borbonico” è una sorta di risposta ai successi politici della Lega Nord all’inizio degli anni 1990, è un tentativo di ritrovare un’identità meridionale. Conseguenza inevitabile di un fenomeno culturale in crescita, che molti sottovalutano e che i suoi rappresentanti a volte esagerano.

I padri delle nostre Patrie si unirono idealmente per l’affermazione delle rispettive identità nazionali in un’Europa governata in larga parte da un’impero multietnico. Oggi li chiamerebbero sovranisti?

È un’analogia senza dubbio interessante, anche se i periodi storici sono diversi. Se si definisce sovranista  uno che lotta per l’indipendenza del proprio Paese sì, Kossuth o Garibaldi erano sovranisti, con un significato del tutto positivo. Oggi però, con alcune definizioni, siamo arrivati sull’assurdo. Si bolla come intollerante chi alza la voce in difesa della cristianità, come omofobo chi opera in difesa della famiglia, come nazista chi difende un’Europa intesa come federazione di nazioni.

Una domanda, in chiusura, su uno dei più importanti ungheresi. Non solo abito vicino a Nagycenk, dove fece i suoi studi e visse, ma proprio ad Hegykő, paese natale di  Eperjes Karoly, il grande attore che lo interpretò nel famoso film “Hídember” . Stiamo parlando di István Széchenyi, un personaggio che mi ha sempre affascinato. Non so se qualcuno lo ha già fatto prima, ma io lo chiamo il Cavour ungherese, perché vedo molte analogie nelle loro vite. Forse è Cavour ad essere lo Széchenyi italiano? Cosa pensa del caso MTA, istituzione fondata appunto dal conte che vi investì gran parte delle sue rendite?

È veramente un buon confronto. I due aristocratici, il conte di Cavour e il conte Széchenyi, ambedue ispirati al modello inglese, contribuirono in maniera decisiva allo sviluppo del loro Paese, sostenevano la necessità di avviare decise riforme economiche. La prestigiosa Accademia delle Scienze Ungherese fu veramente istituita grazie ad un generoso contributo finanziario elargito da István Széchenyi, definito da Lajos Kossuth “il più grande degli Ungheresi”. La struttura accademica ungherese è un’eredità difficile del comunismo che va cambiata con grande sensibilità e cercando di trovare consenso.



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Foto: vesuviolive, zanichelli.it