articolo di Patrizia Danzè

La fotografia come avventura

«Il principio di avventura mi permette di fare esistere la Fotografia» scriveva Roland Barthes in “La camera chiara”, penetrante nota del grande semiologo sulla fotografia. E per avventura intendeva «quell’agitazione interiore, quel lavorio, quella pressione dell’indicibile che vuole esprimersi». Insomma, non solo interesse o amore per l’oggetto, per il paesaggio, per il corpo da raffigurare, ma quell’attrattiva per la quale l’unica parola adeguata è avventura, nel senso- diceva Barthes- che «la tale foto mi avviene, la talaltra no». Nel senso che «essa mi anima e io la animo. E questo è appunto ciò che fa ogni avventura».

Endre Ernő Friedman: gli inizi

La stessa avventura vissuta dal grande fotografo Robert Capa, pseudonimo di Endre Ernő Friedman, nato a Budapest il 22 ottobre del 1913 e  morto a Thai Binh, in Indocina, il 25 maggio 1954. La sua era una famiglia ebrea proprietaria di una casa di moda, probabilmente la stessa dove il giovane, vivace Endre apprendeva la creatività. Che Endre non ebbe modo di esprimere nella sua bellissima città perché era diciassettenne quando venne arrestato in quanto simpatizzante delle idee comuniste. Così, appena venne liberato, nel 1931, preferì andarsene a Berlino dove, alla Facoltà di Scienze Politiche, si iscrisse al corso di giornalismo della Deutsche Hochschule fur Politik.

Intanto, la sartoria dei genitori viveva una situazione di difficoltà e dunque Endre, non potendo più ricevere danaro per gli studi e per mantenersi a Berlino, trovò, grazie a un conoscente ungherese, un impiego di fattorino e aiutante di laboratorio presso l’agenzia fotografica berlinese Dephot, dove ben presto ebbe affidati, per il suo talento, dal direttore Simon Guttmann, intellettuale e letterato, piccoli servizi fotografici sulla cronaca locale. Era un ambiente molto stimolante e illuminato; Guttmann, realizzatore di documentari politici e ideatore del reportage fotografico, era amico dei pittori del gruppo Die Brücke e collaborava con Walter  Benjamin. Endre fece in tempo ad essere inviato da Guttmann nel 1932 a Copenaghen per fotografare Lev Trotsky durante una lezione agli studenti danesi, perché già nel 1933, per l’avvento del nazismo, subito dopo il tragico incendio del Reichstag, lasciò Berlino per Vienna, per poi, l’anno successivo, raggiungere Parigi, dove già si trovava Guttmann.

In Francia cominciò a lavorare come fotografo freelance, affascinato dalle avventure fotografiche che gli avvenivano (per usare i termini di Barthes) nella città della cultura, uno scenario en plein air dove rimase dal 1933 al 1939 e dove avrebbe fatto la sua base anche nel dopoguerra. È proprio nei caffè di Montparnasse che conobbe il polacco David Seymour Szymin, noto come David Seymour, che lo presentò ad Henri Cartier-Bresson e ad altri giovani fotografi, tutti di origini sociali e geografiche diverse, e con i quali nel 1947 avrebbe fondato la cooperativa di fotografi Magnum Photos. E nella Place du Tertre, nel paradiso dei pittori, o alle corse ippiche (ritenute da Capa lo sport dei re come lo sport dei portinai) trovava quei contrasti fra giovane e vecchio, tra umano e animale, tra ricco e umile, tra prosaico ed eccezionale che tanto amava fotografare.

Ma, tornando agli anni Trenta, fu proprio Guttmann a inviarlo nel 1935 in Spagna per un reportage; e lì, nel 1936, si accreditò come fotogiornalista, per la prima volta, grazie  alla sua compagna, la profuga tedesca Gerda Taro, di grande intelligenza e intraprendenza (nata Poorylle, ebrea di origine polacca, poliglotta e anche lei fotografa), per documentare la guerra civile spagnola. Insieme partirono all’avventura, insieme crearono il personaggio Robert Capa, un nome americano e un cognome che giocava tra l’assonanza con il famoso regista italoamericano Frank Capra e la parola “capa” che in ungherese significa squalo, come il vivacissimo Endre bambino veniva chiamato in famiglia (il nomignolo era “bambi”).

Endre diventa Capa

Al fotografo Robert Capa, “venuto dall’America per lavorare in Europa” (un’identità tutta nuova insieme all’invenzione di un io fotografico ideale) capitò un colpo di fortuna. Era il suo kairós, il momento opportuno, da afferrare “per i capelli”, come per la statua del grande scultore greco del IV secolo a.C., Lisippo.

Un soldato dell’esercito repubblicano con la camicia bianca colto nel momento in cui veniva colpito a morte dai franchisti, nel 1936, a Cordova, divenne la “foto”, la «tale e non la talaltra» (per ricordare sempre Barthes) che determinò il successo di Capa. Come accade spesso, il fatto fu casuale. Lo raccontava lo stesso Capa: si trovava in trincea con circa venti miliziani che avevano vecchi fucili, e dall’altro lato della collina c’era una mitragliatrice di Franco. I miliziani avanzavano verso la mitragliatrice che li faceva indietreggiare, e mentre qualcuno cadeva, un altro gruppo ripartiva al grido di vamonos. Alla quarta volta di questa drammatica scena, Capa mise la macchina fotografica sulla testa e scattò senza neppure guardare. Non sviluppò le sue foto, le inviò a casa insieme ad altre. Quando tornò a casa, dopo essere rimasto tre mesi in Spagna, era diventato famoso, perché nell’obiettivo c’era un uomo mentre veniva ucciso. L’immagine, di cui colpiva soprattutto quella camicia bianca, il punctum barthesiano, ciò che “punge”, che ferisce, un’immagine di vita e di morte (camicia della nascita o sudario di morte) oppure stendardo di resa su uno scenario di guerra, fu pubblicata grazie a Gerda (che intanto aveva creato con Robert il marchio di successo “Capa-Taro”) per la prima volta sulla rivista francese Vu nel settembre del 1936, poi su Regards il mese dopo. Ma a luglio del 1937, mentre Robert si trovava a Parigi per lavoro, Gerda (la “Ragazza con la Leica” del romanzo di Helena Janeczek)  andò a fotografare la battaglia di Brunete a ovest di Madrid e lì a 26 anni moriva tragicamente. Rimase schiacciata durante una ritirata, nella confusione, per un errore di manovra, da un carro armato del governo spagnolo, nello stesso mese del 1937 in cui l’immagine del soldato colpito a morte appariva sulla rivista americana Life, per poi diffondersi in tutto il mondo. La morte della sua compagna di vita e di lavoro fu un colpo durissimo per Robert Capa che l’anno seguente pubblicò “Death in the making”, un libro con le foto di entrambi sulla guerra civile.

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Capa fotografa il militare franchista nel 1936

Capa in color: la mostra a Torino

Di Capa, fino alla mostra di oggi di Torino, a cura di Cynthia Young (curatrice dell’Archivio Robert Capa) in esposizione ai Musei Reali dal 26 settembre 2020- al 31 gennaio 2021 (fruita dal pubblico fino alla nuova chiusura dei musei per emergenza Covid), si conoscevano le foto in bianco e nero della Parigi degli anni Trenta, della guerra civile spagnola, della seconda guerra mondiale, dell’Europa postbellica e le ultime immagini in Indocina. Sembrava che le foto a colori di Capa fossero rare, ma non era così, e infatti già nel 1938 egli amava sperimentare con le pellicole a colori. Due anni prima la Kodak aveva sviluppato la Kodachrome, il primo rullino fotografico a colori e Capa che intanto si trovava in Cina per la guerra sino-giapponese, scrisse a un amico dell’agenzia Pix di New York di mandargli dodici rullini Kodachrome con tutte le istruzioni. Aveva- disse- un’idea per Life, e in effetti furono pubblicate quattro immagini a colori della Cina, che segnarono l’inizio della sua avventura con il colore; infatti, impiegò le pellicole a colori anche nel 1941 e per i due anni successivi cercò di persuadere gli editori, e non sempre con successo, ad acquistarle insieme a quelle in bianco e nero. Dopo la guerra le riviste inclusero con entusiasmo le foto a colori e così gli incarichi di Capa aumentarono. E da allora per il resto della sua vita portò quasi sempre con sé due fotocamere, una per il bianco e nero, l’altra per il colore.

Normandia e Sicilia nella seconda guerra mondiale

Nel 1941, durante la seconda guerra mondiale, Capa seguì l’attraversamento dell’Atlantico a bordo di un convoglio navale partito da New York e fece il suo primo servizio con pellicole a colori, poi pubblicato dal settimanale inglese Illustrated. Un’esperienza, il viaggio, ripetuta l’anno successivo e per la quale egli si attrezzò con una fotocamera per formati più grandi che rese spettacolari le immagini della nave e i ritratti dell’equipaggio. “Animare” la guerra con il colore, darle l’evidenza brillante della realtà, guardarla negli occhi, mentre la guerra, con i suoi elementi che si ritrovano nella vita di tutti i giorni, lo guardava, era il desiderio di Capa, ma lo sviluppo delle pellicole di Kodachrome richiedeva tempo (le pellicole dovevano essere inviate in un laboratorio specializzato della Kodak per poi essere rispedite al fotografo) e la pubblicazione veniva ritardata. Ma nonostante il fatto che le riviste pubblicassero solo alcune delle foto a colori, Capa non smise di usare il colore. Lo fece nel 1943 quando si ritrovò in Nordafrica, ancora sui campi di battaglia, dopo aver viaggiato su una nave per il trasporto delle truppe dall’Inghilterra a Casablanca. Stupefacenti sono le immagini a colori scattate in Tunisia: si va dai “Membri del 504º Reggimento Paracadutisti” alle “Truppe cammellate francesi, i meharisti, nel deserto in Tunisia”, da un “Cimitero tedesco nei pressi dell’aerodromo di El Ouine” ai “Membri di una divisione corazzata americana su un carro armato tedesco”, immagini esaltate dal colore che nella sintassi narrativa bellica acquista un significato profondo: raccontare la “pienezza” della guerra, entrare nel fatto contingente, che nella sua quotidianità “comune” ne rivela l’orrore e l’insignificanza. Allora, il drappo rosso con svastica nera (punctum della foto, orribile a vedersi) nella foto “Membri di una divisione corazzata americana su un carro armato tedesco”, esibito come un trofeo da giovani e sorridenti soldati americani che torreggiano su un carro armato tedesco, racconta ossimoricamente il senso profondo della foto. Nessuna profondità di campo, quel che sta dietro al carro armato con soldati, cielo e arbusti, potrebbe appartenere a qualsiasi paesaggio, è quasi un non-luogo. Ciò che conta è quel mostro-giocattolo caduto in mano ai liberatori. Capa avrebbe scattato le sue ultime immagini a colori di guerra su un convoglio dalla Tunisia alla Sicilia nel luglio del 1943, ma la rivista Illustrated nello stesso luglio del 1943, scegliendo di non illustrare le bellissime immagini a colori, pubblicò le stesse in bianco e nero. 

Quanto alle fotografie dello sbarco in Normandia e in Sicilia in bianco e nero, assai espressive, anche quelle “leggermente fuori fuoco” (e “Slightly out of focus”, “Leggermente fuori fuoco”, Capa intitolò nel 1947, il suo diario come fotoreporter di guerra alla seconda guerra mondiale), magari rovinate per la fretta in fase di sviluppo, molte di esse, tuttavia, proprio perché “sfocate”, riuscirono “naturali” ed emozionanti. Erano immagini molto semplici– diceva Capa- che mostravano il vero volto della guerra, «un inferno che gli uomini si sono creati da soli». Da ricordare quella in cui in Sicilia un contadino dà informazioni a un ufficiale americano: un soldato, di alta statura, che si rivela essere Franklin Delano Roosevelt Jr, figlio del presidente degli Stati Uniti, è accovacciato e guarda nella direzione che il pastore, in piedi e curvato verso di lui, gli indica con il bastone che tiene in mano. La didascalia ufficiale della foto, che si legge nel sito della Magnum Photos, recita così: “ITALY. Near Troina. August 4-5, 1943”. Nei mesi successivi Capa si sarebbe fermato a Napoli insieme ai soldati americani e per il resto della guerra, per le difficoltà dello sviluppo e delle pubblicazioni sulle riviste, non impiegò più pellicole a colori. 

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La foto di Capa durante lo sbarco in Sicilia

Le foto a colori e il dopo guerra

Ma ritorniamo alle foto a colori. Già nel 1941, in uno dei suoi viaggi di ritorno da una scena di guerra, Capa, in America, fu inviato da Life a Sun Valley, nell’Idaho, per un servizio su Ernest Hemingway e Martha Gelhorn, conosciuti in Spagna durante la guerra civile. Splendide immagini familiari, insieme al figlioletto Gregory, con sullo sfondo l’affascinante paesaggio montano di ottobre nell’Idaho. Ritratti eccezionali, come quello che nel 1948 fece a Pablo Picasso a Vallauris in Francia, uno dei luoghi dove l’artista trascorse molti anni nel sud della Francia, e dove ancora oggi c’è il complesso museale Musée de la ceramique e il Musée National Picasso. Capa avrebbe dovuto realizzare per Look un servizio sulle sorprendenti opere ceramiche del maestro, ma poi il servizio divenne un “semplice” reportage su Picasso e la sua famiglia. Quelli di Illustrated rimasero delusi, ma comunque apprezzarono il servizio che comprendeva la foto divenuta famosa di Picasso che ripara con un ombrellone la giovanissima moglie dell’artista, anch’essa pittrice, Françoise Gilot, e l’altra di Picasso in mare, a colori, con il figlioletto tra le braccia, un vivacissimo Claude (fratello di Paloma, entrambi figli della coppia), tenuto ben stretto dalle mani possenti del padre (le mani del maestro sono il bellissimo punctum della foto).

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Picasso

Dopo la seconda guerra mondiale Capa intrecciò nuove relazioni con riviste e quotidiani e in particolar modo con Holiday, lanciata nel 1946 dalla Curtis Publishing Company di Filadelfia, un tipo di rotocalco postbellico interamente a colori, la cui “filosofia” era quella di comunicare glamour e ottimismo. Nel 1950 proprio Holiday avrebbe inviato Capa a Indianapolis per ritrarre la provincia americana con la gente comune tra la folla e un piccolo circo itinerante. E intanto, nel 1947 vi fu l’avventura russa, già prima tentata nel 1937 e nel 1941 (allora gli fu negato il visto e non trovò finanziamenti da parte di un periodico per il viaggio), ma che realizzò dopo aver fondato la Magnum, l’agenzia cooperativa di fotografi sognata sin dal 1938. Questa volta, partito con lo scrittore John Steinbeck, riuscì nel suo intento: il risultato fu un reportage che testimoniava, contro la retorica della guerra civile, la vita della gente comune, reportage poi confluito nel libro “A Russian Journal”, che tuttavia non conteneva gli scatti a colori presenti invece in varie riviste tra le quali Illustrated. Più difficile fu nel 1949 il reportage “politico” in Marocco, perché metteva insieme la politica marocchina, le miniere di piombo, le riprese del film “La rosa nera” con Orson Welles.

Alcune di queste foto furono pubblicate da Paris Match, a illustrare un articolo sul tour annuale nel paese compiuto dal sultano Sidi Mohammed. Famosa e spiazzante, come nello stile di Capa, era “Spettatori in attesa del Sultano Sidi Mohammed”, scattata a Fez, con spettatori in abito tradizionale bianco insieme su un albero. Invece Illustrated uscì con un pezzo, corredato da foto in bianco e nero, sugli effetti del piano Marshall che il Marocco avrebbe ricevuto in quanto “colonia francese”, benché il Dipartimento di Stato americano non riconoscesse il ruolo di leader del generale francese De Gaulle. Fra le immagini molto interessanti di quel periodo erano quelle di gente comune, ma pure, a confermare l’occhio cinematografico di Capa, alcune curiose foto a colori sul set di “La rosa nera”. Una, in particolare, ritraeva Orson Welles dietro al quale stavano appesi ad un albero, quasi fossero impiccati, dei surreali manichini. La pubblicò a colori la Struttagarter Illustrierte, anche se gli editori decisero di eliminare dal servizio quegli inquietanti manichini. 

Il ritorno in Ungheria

Era il 1948 quando Capa, su incarico di Holiday che gli propose di comporre un lungo articolo a corredo delle foto su Budapest, sua città natale, tornò in Ungheria. Fu un viaggio emotivamente forte, nella memoria e in una realtà sempre affascinante, ma che aveva perso la sua grandeur imperiale. Ma forse per questo ancora più bella appariva la città del Danubio immortalata, sia a colori che in bianco e nero, in quelle che furono forse le foto più intense di Capa.

Bellissima quella in cui lo spirito commosso del fotogiornalista, veniva alleggerito dalla ironia che accompagnava i suoi scatti, come a rivendicare un suo linguaggio privato. “Un maiale davanti a palazzo Festetics” a Keszthely, città dell’Ungheria occidentale, metteva in primo piano non la figura umana (che appare lontana e sfocata), ma un maiale (probabilmente della pregiata razza mangalica) a “passeggio” davanti all’elegante castello di Festetics (a ben vedere altri maiali si vedono fuori-campo).  Piene di un’umanità dinamica e partecipe, sono invece le immagini urbane della “Piscina dell’hotel Szent Gellért” brulicante di gente immersa o in procinto di immergersi nelle celebri acque termali di Budapest, o del “Ponte ferroviario sul Danubio” attraversato da una fitta folla di uomini e donne in cammino.

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Palazzo Festetics in Ungheria

Il viaggio in Israele

Nel biennio successivo, Capa dall’Ungheria passò ad Israele per un altro importante incarico “politico”, con due viaggi, un primo tra il 1948-49, accompagnato dallo scrittore Irwin Shaw, e un secondo nel 1950. Un paese interessante, Israele, colto con la forza documentativa della fotografia, tra le tante questioni che lo agitavano, dalla guerra arabo-israeliana (ancora la guerra con le sue lotte fratricide) ai kibbutz, dall’arrivo dei rifugiati alla ricostruzione. Una realtà cui avvicinarsi in punta di piedi ma lo scatto del fotogiornalista, come in un controcanto, indugiava anche sugli aspetti della vita comune, come le celebrazioni ebraiche. Immagini che fecero il giro del mondo, dato che sulla nuova nazione era rivolta l’attenzione internazionale, e che confluirono nel 1950 in “Report on Israel”, con testo firmato da Shaw e foto di Capa.

Gli anni ’50

Il decennio degli anni Cinquanta fu all’insegna di una nuova creatività: il mondo dopo la guerra, nonostante le difficoltà, è bello, vivace, desideroso di porsi davanti all’obiettivo che a sua volta ama fermarsi su vedute con nuove gioiose “architetture” valorizzate dai colori brillanti dell’obiettivo, ma anche da un bianco e nero vivo e sempre presente. Dallo sci (uno degli sport preferiti da Capa) nelle località alla moda di Austria, Francia e Svizzera, alle spiagge di Biarritz alle corse ippiche di Deauville, era un mondo altolocato e benestante se non esclusivo (attori, registi, rampolli blasonati, membri delle case reali), quello ritratto nel suo rilassato svago, tra attività diurne e vita notturna, per la gioia dello spettatore che poteva sognare sfogliando le pagine di Holiday, rivista come sempre alla ricerca del glamour.

Non poteva mancare Roma, la città eterna di cui Capa coglieva l’attimo, fermata per Holiday nella sua “dolce vita”. Una fotografia che confluiva nelle pagine patinate dei rotocalchi e delle riviste, sulle quali, e tra esse l’italiana Epoca, apparivano in tutto il loro splendore modelle e attrici famose, come, ad esempio, una Capucine in rosso, modella e attrice francese, affacciata al balcone di un palazzo con sullo sfondo Roma (agosto 1951), ritratta in una posa “naturale”, moderna, lo sguardo come assorbito in una lontananza sognante nella quale è compreso un futuro incognito. Una immagine di bellezza totale, quasi ingombrante, in cui il punctum barthesiano pare essere la mano di Capucine stagliata sul rosso del pullover (in pendant col rosso delle labbra), a sorreggere il mento e un volto pensoso.

Un’altra avventura è quella di sguardi e di posture che Capa coglie sui set cinematografici. Un primo “assaggio” era avvenuto nel 1944, a Napoli, quando incontrò il regista John Huston sul set di un film che stava girando per l’Army Signal Corps, un secondo nel 1945, a Parigi, dove durante le riprese conobbe Ingrid Bergman, prima della loro intensa relazione sentimentale. Ma la sua prima volta come fotogiornalista cinematografico avvenne a Hollywood, quando, terminato il conflitto mondiale Capa era diventato cittadino americano e si era fermato alcuni mesi a Hollywood per scrivere le sue memorie di guerra. Un “battesimo” eccezionale, nel 1946, per le riprese di “Notorius” di Hitchcock, benché Capa non apprezzasse molto il mondo del cinema se non perché gli consentiva di allacciare nuove amicizie o di riallacciare vecchie conoscenze con registi e attori del tempo della guerra. E, infatti, preferiva interrompere il suo lavoro cinematografico con altre avventure, come quella in Turchia, dove rimase due mesi per le riprese di un documentario.

Hemingway Capa

Ernest Hemingway con il figlio

Ma nel 1953 lo ritroviamo in Italia che “agitava” il suo interesse grazie alla fascinazione naturale del suo paesaggio e dei suoi scenari: e se un set naturale diventava il sito archeologico di Paestum (in Campania) per fissare la figura statuaria di Martha Gelhorn, giornalista e scrittrice statunitense, sua amica e terza moglie di Ernest Hemingway, ritratta come una colonna in mezzo alle colonne doriche, fu sul set del film “Il tesoro dell’Africa” diretto nel 1953 da John Huston, e girato a Ravello sulla costiera amalfitana, che Capa svolse il ruolo di fotografo di scena, trovandosi a contatto con Truman Capote, suo sceneggiatore, e con, tra gli altri attori,  Humphrey Bogart e Gina Lollobrigida. Del grande regista avrebbe seguito anche un altro film, girato tra Parigi e gli Shepperton Studios di Londra, “Moulin Rouge”, ispirato alla vita del pittore Toulouse Lautrec.

Sarebbe stata ancora l’Italia, nel 1953, a rappresentare oggetto di interesse umano sul set di “Viaggio in Italia”: ad Amalfi, lo scatto di Capa coglieva Roberto Rossellini, Ingrid Bergman e George Sanders intenti a leggere il copione con alle spalle un trionfo di frivoli palloncini colorati. E a confermare lo studium (anch’esso barthesiano), l’interesse di Capa per la situazione umana, si può ancora ricordare l’immagine che fermava l’attrice italiana Anna Magnani sul set del film “Bellissima” (Roma 1951), una foto straordinaria giocata sui contrasti e sui particolari. 

Anna Magnani Capa

Anna Magnani fotografata da Capa

La parentesi norvegese, vissuta da Capa nel biennio ’51-52, apriva nuovi scenari. Capa vi si era recato nell’estate del ’51 inviato da Holiday e poi l’anno successivo per seguire le Olimpiadi Invernali. Fu lì, mentre fotografava quel paesaggio sospeso tra cielo, acqua, nevi e silenzi boreali (straordinaria la foto di Hammerfest con le sue casette colorate da fiaba e le renne in primo piano, il punctum della foto), fu lì che Capa comprese che una nuova era si stava aprendo, che trovò “materiale” e nuovi argomenti per il progetto Generazione X, noto anche come Gen X. Già iniziato per la Magnum alla fine del 1949, il progetto intendeva ritrarre una generazione di ragazzi e ragazze di vari paesi, e raccontare cosa pensavano, come vivevano in famiglia e nel sociale, quali obiettivi e quali pensieri avevano. Inizialmente il progetto fu sostenuto dal periodico femminile americano McCall’s, poi, venuto meno questo, con l’intervento di Holiday fu portato a termine in tutte le sue fasi.

Il servizio uscì in tre parti all’inizio del 1953 e portava la firma di fotografi come Cartier-Bresson, Chim e Eve Arnold, che collaborarono con Capa per realizzare il ritratto di un ragazzo o di una ragazza dei paesi in cui lavoravano o avevano lavorato. Vennero fuori i ritratti di ventitré persone di quattordici paesi dei cinque continenti, e quelli di Capa, una ragazza francese, un ragazzo tedesco e due norvegesi, erano sia a colori che in bianco e nero. Ma soltanto Holiday pubblicò le foto a colori dei norvegesi. Nel grande libro della fotografia di Capa, nella grammatica dell’immagine che egli si ostinava ad osservare, era un principio etico tenere vivo il modo umano di “vedere”; e il colore era proprio funzionale a un modo scoperto di interpretare la realtà. Non si trattava di conferire più luce o bellezza, con il maquillage di una tavolozza colorata, al paesaggio, agli oggetti, alle persone, ai gesti, ma di valorizzare il “calore naturale” che essi  emettono. 

E quale città poteva esibire un lusso cromatico più luminoso di Parigi, che per Capa, cittadino del mondo, rimaneva comunque il luogo dove tornare, dove era nata la sua avventura con la fotografia, la sua ricerca, il suo viaggio nell’universo fotografico e nel mondo. Un “set” naturale dove nel 1952 realizzò una sorta di inno fotografico alla città commissionatogli da Ted Patrick, direttore di Holiday. Un numero speciale per il quale Capa coinvolse i colleghi della Magnum, Henri Cartier-Bresson, Chim, Dennis Stock e che conteneva i testi firmati da Irwin Shaw, Paul Bowles, Ludwig Bemelmans, Art Buchwald e Colette: l’ “Arco di Trionfo” con la sua bandiera sventolante che sembra scendere dal cielo, o gli “Avventori ai tavolini  del Café de Flore a Saint-Germain-des Près” con un cane in primo piano (accanto alla sua padrona che fruga nella borsetta) accosciato su una sedia in una posa aggraziata quasi umana, ma anche la “Gallina davanti al ristorante Chez Anna”, in uno degli scatti (come il maiale ungherese) che riflettevano, nella semantica di Capa, il suo entusiasmo per la barthesiana animazione, quella che fa in modo che «quella tale foto e non la talaltra mi avvenga». 

Il ritorno al “lavoro vero”, l’ultimo lavoro

Scrive Walter Benjamin in “Piccola storia della fotografia”: «La natura che parla all’apparecchio fotografico è ben diversa da quella che parla all’occhio; diversa perché, al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall’uomo, ne compare uno elaborato inconsciamente». Lo aveva fatto per tutta la vita, Capa, che nel 1953 intendeva tornare al “lavoro vero” dopo la parentesi giocosa di Biarritz e Deauville e dei film che aveva seguito. E scriveva del suo desiderio di andare in Indocina o in qualsiasi altro posto che lo riportasse al suo ambito.

Da una parte lo attirava l’Oriente (era stato già in Cina con il cineasta Joris Ivens per documentare la resistenza contro l’invasione giapponese prima di tornare in Spagna nel ‘39), dall’altra il compenso che avrebbe ricevuto. Così, nel 1954, in aprile, mentre trascorreva alcuni mesi in Giappone, ospite dell’editore Mainichi (splendida la foto della “Festa del Primo Maggio” scattata a Tokyo), ricevette il cablogramma in cui Life gli chiedeva di sostituire il fotografo della rivista in Indocina. E Capa, che non aveva avuto mai problemi ad attraversare confini, neanche quelli, come amava ripetere, della “cortina di ferro” (ovviamente, proprio in quegli anni era stato in Polonia e in Cecoslovacchia, oltre che in Ungheria e in Russia, come già detto), accettò. Giunse ad Hanoi intorno al 9 maggio per fotografare per un mese  la guerra dei francesi in Indocina e il 25, con il reporter di Time John Mecklin e il corrispondente per il gruppo Scripps –Howard John Lucas, accompagnò una missione militare francese da Man Dinh al delta del Fiume Rosso.

Con sé aveva, come al solito, due fotocamere: una Contax con pellicola in bianco e nero, e una Nikon con pellicola a colori. Si muovevano su una strada sterrata, fra le risaie, ma a un certo punto, mentre si dirigevano verso Thai Binh, Capa lasciò il convoglio per proseguire da solo con l’intenzione di fotografare i soldati che avanzavano attraverso i campi. Come sempre, lui che durante la seconda guerra mondiale si era lanciato col paracadute e si era immerso nelle acque del mare durante gli storici sbarchi, lui che aveva voluto testimoniare l’inutilità della guerra, «l’inferno che gli uomini si sono creati da soli», non aveva paura, e così si arrampicò con audacia su un argine per poi ritornare sulla strada. Ma calpestò una mina e rimase ucciso, a quarantuno anni. Quegli ultimi scatti forse non furono mai ricevuti dai redattori di Life, ma è un mistero il motivo per cui rimasero esclusi anche dalle pubblicazioni successive.

Capa però aveva fatto in tempo però a inviare altre bellissime immagini, come sempre organizzate secondo il suo registro stilistico, composito e sospeso. Come se su quel paesaggio, testimoniato dalla bellissima foto dai colori sfumati “Sulla strada da Man Dinh a Thai Binh”, diviso su due piani, una metà rurale, l’altra bellica, incombesse la tregua che precede il caos.  L’anno dopo la morte di Capa, Life e Overseas Press Club istituirono il Premio annuale Robert Capa “per la fotografia di altissima qualità sostenuta da eccezionale coraggio e spirito d’iniziativa all’estero”. Vent’anni dopo, con la volontà di mantenere in vita l’opera di Robert Capa e di altri fotogiornalisti, Cornell Capa, fratello di Robert, e anche lui famoso fotografo, fondò l’International Center for Photography a New York.



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Foto: Ungherianews, phaidon