«Chi se ne frega di questo momento che è la mia vita attuale? È stata incredibilmente emozionante anche così, solo che mi ha permesso di vivere molto poco di ciò che avrei potuto vivere in un altro corpo. Ma nell’infinito ogni vita è meravigliosa. Anche la vita più terribile.»

El Kazovszkij con queste parole esprime il dramma della propria esistenza, intrappolata in un corpo che non gli appartiene. Tra gli artisti più influenti del panorama artistico ungherese del secondo Novecento, El Kazovszkij ci lascia un enorme corpus di opere, frutto di uno stile di vita non convenzionale ma esemplare da molti punti di vista.

Da Elena a El Kazovszkij

Fin da piccolo si ribella ad una femminilità che sente forzata e non nasconde mai la sua natura di uomo transgender. Si sente uomo dominante, attratto da ragazzi più giovani, femminei, che vede come donne e che ama in quanto tali.

Nasce come Elena Kazovskaya nel 1948 a Leningrado, a otto anni viene lasciato alle cure dei nonni materni, fino a quando a sedici anni decide di ricongiungersi con la madre, trasferitasi a Budapest con il nuovo compagno.

Incapace di accettare la concezione tradizionale dei ruoli di genere, decide di restare in Ungheria, dove la lingua, che a livello grammaticale non esplicita i generi, non lo costringe ad essere né uomo né donna. Col nuovo nome di El Kazovszkij si avvicina sempre più al movimento punk degli anni Sessanta e Settanta, basato sulla volontà di abbattere le rigide gabbie sociali in cui i generi e la cultura sono intrappolati.

figura1

L’esperienza del paradiso

È proprio nella Budapest underground di metà anni Settanta che El Kazovszkij incontra János Can Togay, ragazzo ventenne con cui intraprende una breve storia d’amore, un’esperienza di «accettazione totale», di «paradiso».

L’arte di El Kazovszkij diventa una rielaborazione continua del dolore di un amore non corrisposto, viene alimentata da un senso di perdita, da un desiderio insaziabile. Le sue opere, che siano quadri, installazioni o performance, non sono altro che la continua elaborazione dei motivi che compongono la sua mitologia individuale.

L’immagine di un’ossessione

In quasi tutte le opere compare la figura di un cane-lupo, alter-ego dell’artista. El Kazovszkij lo definisce «animale migratore» perché vaga di opera in opera alla ricerca costante della bellezza, incarnata dai cosiddetti “idoli”, che possono avere la forma di ballerine, cigni, pesci, sirene, torsi, parche o angeli. Spesso posti su piedistalli, gli idoli sono portatori di una bellezza androgina senza volto e personificano l’oggetto del desiderio, eternamente frustrato.

El Kazovszkij

El Kazovszkij, Corpo di ballo di piccoli angeli. Purgatorio XXII, 1992. Olio su tavola, 112 ×
148 cm, Budapest, Collezione Szalóky.

La drammatica condizione di irraggiungibilità dell’oggetto del desiderio è resa in Corpo di ballo di piccoli angeli, realizzato nel 1992. Nessun elemento della parte destra del quadro viene messo in connessione con ciò che avviene a sinistra, anzi, l’apparizione di un edificio nel mezzo di un paesaggio montuoso desertico sembra quasi un’allucinazione. L’unico elemento a mettere in comunicazione i due mondi è lo sguardo del cane-lupo, straziante nella sua disperazione.

Figura3

El Kazovszkij, Animale migratore sull’altalena, 1994. Olio su tavola, 49 × 65 cm, Bucarest,
Collezione Gábor Hunya.

In Animale migratore sull’altalena, datato 1994, emerge il concetto di ambivalenza: l’animale migratore si colloca in una posizione mediana, affacciata su due visioni della realtà, in cui l’equilibrio è tuttavia precario. Rispecchia la condizione esistenziale dell’artista, la cui identità nazionale, affacciata su due paesi, è inclassificabile, così come la sua identità di genere.

L’opera di El Kazovszkij mette in scena un continuo gioco di forze che si fronteggiano costantemente, eppure nei suoi quadri non c’è narrazione, l’unica azione a cui assistiamo è l’eterno vagabondaggio dell’animale migratore nella quiete di paesaggi allucinati.

Visioni allucinate e prospettive impossibili

I personaggi di El Kazovszkij sono stilizzati, presenze bidimensionali plasticamente poco approfondite, quanto piuttosto caricate di significato. Le figure sono compresse all’interno di spazi impossibili. Panorami surreali generano nell’osservatore un senso di solitudine e inquietudine che richiama i paesaggi metafisici di Giorgio de Chirico.

Prospettive precipitose, colori innaturali, visioni allucinate e ombre enigmatiche fanno apparire gli idoli come qualcosa di lontano e irraggiungibile verso cui però il soggetto tende con tutta la propria forza.

Per vedere altre sue opere: clicca qui.



Per rimanere sempre informato sull’Ungheria: clicca qui!

 

© Riproduzione riservata

Foto: hu.museum-digital.org, cultura.hu