“Voi siete straniero”, esordiscono gli agenti della Questura, controllando i documenti di Erbstein al termine di uno degli allenamenti del Torino. “Si, sono Ungherese”, risponde l’allenatore, eludendo consapevolmente quella che è la reale intenzione di quella affermazione, volta ad evidenziare la “razza” di appartenenza del Mister magiaro, che prontamente ammette: “Faccio parte della razza umana”. Indispettiti, i due agenti replicano senza giri di parole: “Andate alla Sinagoga il Sabato?”, ma il tecnico granata non si lascia intimidire, e ribatte: “Io al sabato e alla domenica vado allo stadio, sempre”.

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Il “Grande Torino” prima di una partita. In piedi a destra Ernest Erbstein

Era il 1938, e le leggi razziali in Italia mietono già le prime vittime: gli ebrei stranieri, costretti per primi ad abbandonare la penisola. Ernest Erbstein, Ernő in ungherese e soprannominato Egri, è uno di loro.  Nato a Nagyvarad, ai confini dell’Impero Austro-Ungarico, da una famiglia di religione ebraica, Ernő si trasferisce giovanissimo a Budapest per studiare Scienze motorie, ove fa il suo esordio come calciatore nelle fila della BAK, la Budapest Atletikai Klub.

Il calcio è sempre stata la sua passione, ed il campo da gioco la sua casa. Ma all’epoca, all’inizio degli anni venti, giocare a pallone non è sufficiente per mantenere la propria famiglia. Così, il giovane Ernő inizia a lavorare come agente di borsa, senza però abbandonare lo sport della sua vita. Tuttavia, nel 1924 lo nota l’Olimpia Fiume, che lo chiama a giocare nelle proprie fila. Dopo quattro stagioni in Italia, tra Fiume e Vicenza, Erbstein emigra per un breve periodo negli Stati Uniti, per poi tornare nuovamente nella Penisola, questa volta in veste di allenatore.

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Valentino Mazzola insieme a Ernest Erbstein

All’età di 29 anni, esordisce come tecnico al Bari, poi al Cagliari, col quale vince il campionato di serie C, e poi alla Lucchese, che nell’arco di tre anni porta dalla Serie C alla massima serie. Grazie al successo nelle stagioni in Toscana, nel 1938 Erbstein si sposta nel capoluogo piemontese, alla corte di Ferruccio Novo, storico presidente del Grande Torino. Il suo sogno di diventare grande nel calcio si è finalmente realizzato.

Ma dopo una sola stagione, terminata al secondo posto, Ernő è costretto, a causa delle Leggi Razziali, a lasciare il paese, lontano da quel sogno, ormai infranto. Dopo un lungo peregrinare, torna a Budapest, nella sua Ungheria, dove inizia a lavorare come operaio nel settore tessile. Ma sono gli anni della guerra, e per gli ebrei in Ungheria ed in Europa, non c’è sufficiente spazio. Nel 1944 viene arrestato e imprigionato in un campo di lavoro, dal quale riesce ad evadere fortunosamente qualche mese dopo: giusto in tempo per salvare la moglie e le figlie, ostaggio delle Croci Frecciate nella Villa che ospita l’azienda per la quale lavorano. Fino all’arrivo dei Sovietici, trovano riparo in uno scantinato di un palazzo di Pest, proprietà dell’ambasciata svedese retta dal celebre Raoul Wallenberg.

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Monumento a Superga (Torino) in memoria del Grande Torino

Ma, ad esclusione degli ultimi mesi di guerra, Erbstein non perse mai i contatti con Presidente Novo, che continuò a consultare per i nuovi acquisti del Torino. Così, a guerra finita, torna in riva al Po’, prima come consulente del Presidente e poi come direttore tecnico. Siamo negli anni ’40, e nessun avversario è all’altezza della squadra piemontese, che si guadagna il soprannome di Grande Torino: una vera e propria leggenda.

Ma non tutte le storie hanno un lieto fine. Infatti, la notte del 4 maggio 1949, l’aereo che stava riportando a casa il “Toro” da Lisbona, dove la squadra aveva appena disputato un’amichevole internazionale, si schianta sulla collina di Superga. Una tragedia immane, che impose la parola fine su una delle squadre più forti che abbiano mai toccato il suolo di un campo da calcio. Ma pose anche la parola fine sulla vita di ciascuno dei suoi viaggiatori, tra cui Ernő “Egri” Erbstein.

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Ritrovamenti dell’aereo del Grande Torino il giorno dopo la tragedia di Superga

In mezzo a quella devastazione una sola cosa era rimasta intatta: una piccola valigia di cuoio marrone. Dentro c’era una boccetta di vetro con il dopobarba ancora integra e, proprio lì accanto, un regalo comperato a Lisbona. Portava una bambola in dono. Pochi oggetti scomposti raccontano una parte così insignificante della storia di un uomo. Eppure, questo era tutto quanto restava di Ernest Egri Erbstein, l’allenatore che fece vincere cinque scudetti al Grande Torino”.

 

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