Ungheria, 2.00 am

Quando a Los Angeles preparano la colazione, a Mosca rientrano dal lavoro. Sono le due del mattino in Europa, il giorno nuovo è quasi giunto e i pensieri di quello precedente non tramontano. Questa finestra di tempo è ottima, l’animo irrequieto è sconfinatamente vigile.

Sono assolutamente sveglia

nel cuore delle due del mattino.

Tutto sta succedendo

e sta succedendo ora.

Da un angolo all’altro del pianeta

il fuso orario fa di noi attanti,

seriali

e complementari.

Questa eccitazione è peggio di un’intera moka di caffè.

Ho più caffeina che globuli rossi;

sono questi i tempi

giganti e irreversibili,

pachidermici,

in cui rimbomba nell’eternità

il tutto che siamo.

Di passaggio.

 

Al semaforo

Due donne si trovano ad un incrocio, lungo la strada questa tempesta generazionale è dolcissima. Riprendendo il poeta Antonio Ragone: “Siamo parte dell’humus che prepara il futuro, noi che ce ne andiamo”.

 

E’ là, dall’altra parte delle strisce pedonali

nella tonalità più blu delle sei di sera

quando sembra stia per piovere,

ma non oggi.

E’ questo il mio colore preferito

perché ho ancora necessità di qualcosa di apocalittico, io.

Sul mio lato destro una coda di macchine

in fila, l’una dietro l’altra

compongono con il loro smog una melodia visiva decadente,

ridondante. Verde!

Dall’altra parte delle strisce pedonali,

passo, passo, la vecchia mi viene incontro

utilizzando tutti e dico tutti i secondi del timer.

A metà, lo smog l’ha già raggiunta

e sembra quasi le stia salendo dai piedi

fino alle borse della spesa e su, fino alle rughe della fronte

come se l’effetto di quel prestigio

fosse farina del suo sacco.

Continuo a guardarla con l’occhio fermo

immobile, sentendole tutte le decadi

che guardo in silenzio

e che con una leggera sofferenza

finalmente mandano in frantumi tutto quel ghiaccio.