Colpa della storia. Se ci si chiede perché la “Aranycsapat”, la ‘squadra d’oro’, ovvero la favolosa Nazionale di calcio dell’Ungheria – che aveva incantato ai mondiali elvetici del 1954, arrivando ad un passo dal titolo di campione del mondo – non ha più avuto un seguito, sciogliendosi in quelli scandinavi del ’58 come neve al sole, la risposta potrebbe essere questa. Infatti, due anni dopo quel secondo posto scoppia la rivolta che infiamma le strade di Budapest: milioni di ungheresi, dal 23 ottobre 1956, si ribellano alla dittatura smaccatamente filosovietica di Mátyás Rákosi, tanto da imporre la nomina a primo ministro del riformista Imre Nagy.

Seguono giornate convulse e ad altissima tensione, la replica da Mosca non tarda ad arrivare, appena il 4 novembre l’Armata rossa assume con la forza del fuoco il controllo della capitale, grazie ad un massiccio spiegamento di carrarmati e truppe. Per capire cosa questo abbia significato per tutto il popolo ungherese è sufficiente rileggere le drammatiche cronache che, quotidianamente, Indro Montanelli ha firmato da inviato speciale del Corriere della sera per testimoniare gli eventi sanguinosi che si stavano verificando nel frattempo in terra magiara.

Ben presto in tutto il Paese è ripristinato lo status quo, simboleggiato tangibilmente dalla ‘normalizzazione’ che prende forma e sostanza in un nuovo governo, ‘addomesticato’ e capeggiato da János Kádár. Tanto basta per sedare la sommossa e gettare lo scompiglio nella nazionale di calcio. Infatti, il portiere Gyula Grosics, la ‘pantera nera’, è arrestato con l’accusa di tradimento e spionaggio, mentre altri pezzi da novanta di quella selezione scelgono di abbandonare il suolo patrio e di rifugiarsi all’estero: l’ala Zoltán Czibor e la punta Sándor Kocsis si ritroveranno due anni dopo al Barcellona grazie alla mediazione del compatriota László (o Ladislao) Kubala, mentre sempre in Spagna, ma sulla sponda opposta del Real Madrid, ripara il più fulgido fuoriclasse della ‘squadra d’oro’, ossia Ferenc Puskás – peraltro colpevole di diserzione in quanto colonnello dell’esercito – che raggiunge tra i blancos il mitico Alfredo Di Stefano.

La diaspora risulta fatale per le ambizioni ed il blasone della celeberrima ‘scuola ungherese’, praticamente fatta a pezzi dai cingolati sovietici perché impoverita al punto che, proprio nella rassegna iridata in Svezia due anni dopo, il selezionatore Lajos Baróti, succeduto frattanto a Gusztáv Sebes, può contare su un esiguo manipolo di superstiti, quali lo stesso estremo difensore Grosics, nel frattempo scagionato da ogni addebito, il cervello della mediana József Bozsik e il centravanti di manovra Nándor Hidegkuti, ai quali si aggiunge qualche bella speranza come l’attaccante Lajos Tichy. Un po’ troppo poco per non offuscare lo smalto della gloria che fu.

Nella fase a gironi i magiari esordiscono in modo deludente contro il Galles di John Charles, che impone un sorprendente pari per 1-1 (rete di Bozsik), soccombono poi 2-1 contro la Svezia padrona di casa, che annovera un poker d’assi come Gren, Hamrin, Skoglund e, soprattutto, Liedholm (gol della bandiera di Tichy), infine stracciano con un perentorio 4-0 il Messico (Tichy li trascina con una doppietta), consentendosi, così, di mantenere viva la speranza di accedere ai quarti mediante lo spareggio col Galles, peraltro perso per 1-2 (nonostante il vantaggio iniziale del solito Tichy).

Vero è che, a partire dai Giochi olimpici del 1960, e per ben tre edizioni (fino al 1968), la rappresentativa ungherese prende stabilmente possesso del podio, con un bronzo e due ori, ma questo luccichio di medaglie non deve ingannare: come dimostreranno le competizioni continentali e mondiali successive, della “Aranycsapat”, disunitasi a partire da quell’autunno del ’56, non resta altro che uno struggente ricordo.

 

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