Dici battaglia e pensi subito alla piana belga di Waterloo, fradicia di pioggia, dove anche il genio militare di Napoleone s’inabissò il 18 giugno 1815. O alla disperata resistenza dei texani nell’ex missione francescana di Alamo, prima di essere sterminati dalle truppe messicane all’alba del 6 marzo 1836. Invece, quella ricordata in queste righe avviene, strano solo a pensarsi, nella pacifica Svizzera e per di più su un campo di calcio, il 27 giugno del 1954.

Coppa del mondo di calcio in Svizzera 1954

Lo scenario è quello dei quarti di finale della Coppa del mondo di calcio e l’inusuale contesa si svolge a Berna: si sfidano il Brasile, quanto mai assetato di rivincita dopo la tragedia nazionale di quattro anni prima – che aveva laureato campione mondiale gli acerrimi rivali dell’Uruguay, nientemeno che nel tempio per eccellenza del calcio brasiliano, ovvero il Maracanã – e l’Ungheria, che l’anno precedente il mondiale, nell’altro sacrario di Wembley, aveva umiliato a domicilio i ‘maestri’ inglesi, con un 6-3 destinato a divenire leggendario e ad accreditare autorevolmente con i favori del pronostico i magiari, in vista del mondiale elvetico.

Le premesse per uno spettacolo ad elevatissimo tasso tecnico ci sono tutte: il futebol bailado sudamericano contro l’ultimo oro olimpico, colto da quella che sarebbe passata alla storia come la tanto reclamizzata ‘squadra d’oro’, forte della novità tattica del tempo, il centravanti arretrato o ‘di manovra’, al secolo Nándor Hidegkuti, indispensabile per far funzionare a dovere il 3-2-3-2 danubiano.

Quarti di finale: Ungheria – Brasile 4 a 2

E, in effetti, le due contendenti non si fanno certo pregare per mettere in mostra il loro campionario. Ma, forse, è proprio questo il problema, perché gli ungheresi – pur privi del loro fuoriclasse assoluto, Puskás, azzoppato nel match precedente contro la Germania ovest, stravinto nientemeno che per 8-3 – sciorinano uno splendido calcio sotto gli occhi dei brasiliani, ma con lo stesso effetto col quale il torero agita il drappo rosso sotto gli occhi del toro.

Appena sette minuti e un micidiale uno-due di Hidegkuti e Kocsis manda due volte al tappeto i verdeoro, che invano accorciano le distanze con un rigore di Djalma Santos al 18’, il match è sempre in mano ai magiari, che alla fine prevalgono per 4-2. Fin qui nulla di anormale, come può starci pure che gli animi si scaldino in campo e, tra spinte più o meno lecite e pestoni, l’arbitro inglese Ellis, nel volgere di otto minuti, espella prima Bozsik e Nilton Santos per reciproche scorrettezze, poi il brasiliano Humberto.

La rissa dopo la partita

Quel che fa la storia dell’incontro, però, è l’appendice rissosa dopo il triplice fischio, con tanto di pugni, calci e bottigliate (tra Puskás, seppur fuori causa per la gara, e Pinheiro), una vera caccia all’uomo scatenatasi negli spogliatoi, ma che tuttavia, incredibile a dirsi, non viene minimamente sanzionata dalla Fifa, nonostante il referto del direttore di gara, tanto che gli ungheresi si presentano a ranghi pressoché completi nella semifinale contro l’Uruguay (sebbene ancora orfani del menomato Puskás), piegato con fatica solo nei tempi supplementari grazie ad una doppietta di Kocsis, avviato a laurearsi capocannoniere del torneo.

Insomma, la battaglia di Berna è vinta due volte dai magiari, sul campo e fuori, perché passano il turno e, allo stesso tempo, la fanno franca (come, d’altronde, gli stessi brasiliani, nemmeno loro squalificati), nonostante l’indegna gazzarra del post-gara.

La sconfitta della “squadra d’oro”

Ma questo non basta per trionfare nella campagna elvetica del pallone. Infatti, in finale si ripresentano nuovamente i tedeschi occidentali, ma la musica è totalmente diversa, perché nella fase a gironi i teutonici, a causa di un regolamento bislacco, per passare ai quarti avevano deciso di risparmiare i loro uomini migliori in vista del match decisivo con la Turchia.

Col senno di poi mai scelta strategica si è rivelata più lungimirante, dal momento che dopo la solita partenza a razzo dei magiari, avanti di due gol col redivivo Puskás e poi con Czibor, i germanici la mettono sul piano atletico e tattico, riuscendo a riequilibrare le sorti del confronto ed agguantando i fuggitivi già prima del 20’ con Morlock e Rahn, prima di assestare il montante decisivo ancora con Rahn a 2’ dal fischio finale.

La finale passa alla storia come ‘il miracolo di Berna’ per l’esito assolutamente non preventivato alla vigilia – vista la caratura tecnica degli ungheresi, di gran lunga superiore – ma, a ben vedere, di miracoloso c’è ben poco, dato che i tedeschi hanno saputo approfittare con estremo e calcolato pragmatismo del vero tallone d’Achille dei danubiani, ossia una fragilità difensiva che aveva portato ad incassare ben sette reti nelle ultime tre partite.

Fra la rissa dei quarti ed il miracolo della finale, allora, in comune c’è solo la capitale svizzera, ma per la nazionale magiara, una delle più belle incompiute della storia calcistica di tutti i tempi, la differenza è la stessa che corre tra un’illusoria vittoria (di Pirro) in battaglia e la sconfitta finale nella guerra.



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