Continuiamo il dibattito sulle diverse modalità con la quale vari paesi stanno affrontando la pandemia. Dopo aver pubblicato l’articolo di Roberto Buffagni “Coronavirus: due approcci strategici a confronto” pubblichiamo ora un’interessante analisi su quello che sta succedendo in Svezia, un paese che ha adottato misure diverse rispetto a quelle italiane. Un articolo che ci aiuta a capire non solo la situazione nel paese scandinavo, ma che ribadisce anche un altro punto, anche a noi chiaro da tempo, ovvero che molti mass-media italiani riportano in maniera sensazionalistica e spesso non veritiera quello che accade negli altri paesi.

L’articolo “Gli eretici di Stoccolma. Come e perché la stampa italiana disinforma su Svezia e coronavirus” di Monica Quirico e Roberto Salerno è stato originalmente pubblicato su wumingfondation.

Il primo caso accertato di coronavirus in Svezia risale al 31 gennaio. A febbraio il contagio è ancora limitato, e “importato” dalle località sciistiche di Italia, Svizzera e Austria; a marzo il numero dei casi aumenta. Dall’inizio, è l’Agenzia per la sanità pubblica (Folkhälsomyndigheten) ad assumere la gestione della pandemia, come è normale in un paese in cui anche in situazioni di crisi sono gli enti competenti sui vari settori sociali – come il Welfare, l’immigrazione o la sanità – ad avere l’ultima parola, non il governo.

Gli epidemiologi dell’Agenzia per la sanità pubblica esplicitano dall’inizio le linee guida che orienteranno il loro approccio. Innanzitutto, chiariscono come un’epidemia – e a maggior ragione una pandemia – non sia un problema esclusivamente sanitario: la società non è un ospedale, e per affrontare una tale crisi occorre mettere in campo un ampio spettro di competenze: mediche ovviamente, ma anche economiche, sociali, psicologiche, organizzative.

Proprio per questo sottolineano come non possa esistere una strategia universale di argine al contagio, perché ogni paese deve trovare la soluzione più in sintonia con il suo contesto demografico, sociale e culturale, oltre che sanitario. Infine, indicano come obiettivo della linea svedese non il contrasto ferreo del virus, bensì il suo contenimento.

Su quest’ultimo punto ci sono state molte polemiche, perché in un primo tempo anche gli epidemiologi svedesi hanno usato l’espressione «immunità di gregge», precipitosamente ritirata dal dibattito dopo l’infelice uscita di Boris Johnson, che l’ha presentata come il sacrificio deliberato di migliaia di persone. L’idea dell’Agenzia per la sanità pubblica svedese è che il lockdown, oltre a implicare costi sociali ed economici altissimi, non protegge dal rischio di ondate di ritorno del contagio. La scelta degli svedesi è quindi quella di “controllare” la diffusione del virus, lasciandolo circolare – con molte precauzioni – nella società, in modo da non oltrepassare la capacità ospedaliera e arrivare gradualmente ad avere una maggioranza di immuni.

In tale prospettiva, è prioritario proteggere i gruppi a rischio (come gli anziani, soprattutto quelli con patologie pregresse), testando solo le persone con sintomi acuti e introducendo alcune restrizioni, ma soprattutto affidandosi a una serie di raccomandazioni; contando cioè, più che sui divieti, sulla persuasione.

Il contesto di cui parlano gli epidemiologi svedesi è quello di una società con:

■ un relativo distanziamento sociale “spontaneo”, indotto cioè dalla scarsa densità di popolazione (gli svedesi sono 10 milioni, su un territorio che è una volta e mezzo quello italiano) e dal clima;

■ uno stile di vita e una composizione dei nuclei famigliari diversi dai nostri;

■ un’alta fiducia sia verso le istituzioni sia verso gli altri genericamente intesi (un dato, questo, che salta subito agli occhi del visitatore straniero), nonostante l’ascesa del partito populista di destra, criptonazista, i Democratici di Svezia, che qualche problema segnalerà pure, nella democrazia svedese.

È in questa luce che vanno letti i provvedimenti adottati.

Come si affronta il coronavirus in Svezia

Il governo – di minoranza, composto di socialdemocratici e verdi – ha proibito gli assembramenti con più di 50 persone (fino al 29 marzo il tetto era 500); ha proibito le visite alle case di riposo (fino al 30 marzo il divieto era a discrezione dei comuni); non ha chiuso le frontiere (se non ai voli provenienti da paesi non europei, accogliendo un’indicazione dell’UE), né le attività produttive e commerciali o le scuole; tuttavia dal 10 aprile i locali che non mantengono la distanza di sicurezza tra i clienti saranno prima multati, poi chiusi, se perseverano, e gli istituti di istruzione secondaria superiore, i corsi per adulti e gli atenei sono stati invitati a partire dal 19 marzo ad adottare la didattica a distanza. È stato altresì incoraggiato il telelavoro ovunque possibile, e per tutti valgono le raccomandazioni di seguire le elementari norme igieniche, di distanziamento sociale e di prudenza: stare a casa se si hanno anche solo sintomi lievi o dubbi, non spostarsi se proprio non è necessario, ecc.

È vero, questi provvedimenti sono meno restrittivi di quelli presi negli altri paesi nordici. Norvegia, Danimarca e Finlandia hanno chiuso frontiere, scuole e negozi e posto limiti più severi agli assembramenti. La Finlandia ha inoltre messo in quarantena la provincia di Helsinki. Va forse sottolineato come queste misure siano, per le abitudini di quelle lande, decisamente draconiane. Per isolare Helsinki, si è dovuto dichiarare lo stato d’eccezione: non succedeva dalla guerra contro i sovietici tra il 1939 e il 1940.

Si noti però che nessuno di questi paesi ha chiuso le fabbriche – i luoghi in cui si presume ci sia più assembramento – né ha sospeso la libertà di movimento. Danimarca e Norvegia sono addirittura sul punto di cominciare la fase 2.

Vale la pena spendere due parole sulla comunicazione tra istituzioni e cittadini in Svezia, al tempo del coronavirus.

Ogni giorno – tranne che nel fine settimana – si tiene una conferenza stampa per aggiornare sull’andamento del contagio; l’Agenzia per la sanità pubblica è la prima a parlare, seguita dall’Ente per le politiche socio-sanitarie e dall’autorità equivalente alla nostra Protezione civile. Gli epidemiologi guardano innanzitutto al mondo, fornendo i dati della diffusione globale del virus; illustrano poi la situazione europea e infine quella svedese: numero di contagiati, ricoveri in terapia intensiva e, infine, decessi.

Nel discorso pubblico svedese sul coronavirus è del tutto assente la retorica bellicista che imperversa in quello europeo e statunitense: «in guerra contro il virus», «in trincea» ecc. Del resto, la Svezia è un paese neutrale, alieno da guerre da due secoli: qualcosa vorrà dire. Per giunta, media e istituzioni si sforzano di condividere gli «spiragli di luce», ossia le notizie incoraggianti che, negli ultimi giorni, sono venute innanzitutto da Italia e Spagna. In breve, non si punta a terrorizzare la gente in tutti i modi.

Veniamo ai dati. Al 14 aprile i casi accertati sono 11.445 (su un totale di 54.700 tamponi), ma l’Agenzia per la sanità pubblica stima che la quota della popolazione contagiata oscilli tra il 5 e il 10%. I pazienti ricoverati in terapia intensiva sono 915 e i decessi 1033; numeri in costante ascesa in termini assoluti, ma la curva, secondo i calcoli dell’Agenzia, tende ad appiattirsi.

Puntare sull’immunità diffusa senza certezza di un vaccino a breve e facendo leva sul senso di responsabilità dei cittadini è indubbiamente una scommessa rischiosa; si può sospettare che dietro si celi, più che incompetenza, una buona dose di presunzione (di essere i primi della classe) o di cinismo (non fermare l’economia: punto su cui concordano gli imprenditori e l’ultra-istituzionalizzato sindacato), e che il consenso trasversale di cui gode la linea “morbida” prepari in realtà un tiro al piccione: se le misure indicate dall’Agenzia per la sanità pubblica non dovessero funzionare, a pagare sarebbero i socialdemocratici, i quali a loro volta potrebbero scaricare la responsabilità sugli esperti.

Queste tuttavia sono, al momento, illazioni: è presto per fare bilanci, e tanto meno classifiche tra paesi.

Allora perché ci viene quotidianamente rovesciata addosso una valanga di notizie distorte, quando non clamorosamente false, sulla Svezia?

La Svezia dal buco della serratura del lockdown italiano

È il 19 marzo, con l’Italia già in clausura, che l’Ansa trasmette il primo grido di allarme: gli italiani sono preoccupati da quanto accade in Svezia. Una serie di interviste a italiani residenti in Svezia denuncia la spregiudicatezza delle istituzioni svedesi, sottolineando la differenza con l’Italia che «ha avuto coraggio e ha fatto prevalere le ragioni della salute rispetto a quelle economiche».

Nel richiamare le posizioni italiane c’è l’eco di un articolo di Roberto Buffagni molto condiviso nei social, «Epidemia coronavirus, due approcci strategici a confronto», in cui con poco amore per la complessità si sosteneva che da una parte c’era chi voleva salvare vite e dall’altra chi credeva in una logica spietatamente darwinista. Inutile dire da quale parte stava l’Italia. Anche se l’articolo si chiudeva con un poco comprensibile right or wrong is my country, non c’erano dubbi sul fatto che per Buffagni l’Italia fosse nel right.

Una settimana dopo le interviste dell’Ansa il colonnello Repubblica lancia l’offensiva, facendone subito una questione di anticonformismo scanzonato: la Svezia va controcorrente. Andrea Tarquini, la punta di diamante dell’attacco lancia in resta alla Svezia, tanto per essere chiari inizia con «Unico Paese europeo industrializzato importante, la Svezia va controcorrente sull’emergenza coronavirus».

Abbiamo provato a spiegare che le cose non stanno esattamente così, perché se è vero che le differenze con Norvegia e Finlandia ci sono, è arduo sostenere che configurino modelli differenti, considerato che le fabbriche sono aperte e che non sussistono divieti che impediscano l’attività fisica. Ovviamente il modo di procedere svedese «a molti nel mondo appare pericoloso e irresponsabile», e questi «molti» sarebbero quelli del Financial Times, che hanno parlato di «esperimento sanitario unico al mondo». Il pensoso Tarquini, spossato, chiude l’articolo amareggiato e incredulo che un governo socialdemocratico faccia come Boris Johnson e Donald Trump.

Il giorno dopo, sull’edizione cartacea, Tarquini può dilungarsi, evocando subito Finlandia e Norvegia, che avrebbero fatto diversamente, rimarcando quindi l’unicità dell’esperienza svedese resa possibile, suggerisce tra le righe, da un premier debole e da un potente epidemiologo di stato. Un racconto d’appendice in cui il popolo incastrato è rappresentato da un «gruppo di epidemiologi» che ha lanciato un appello per misure drastiche.

Il 2 aprile tocca al Corriere della sera chiedersi perché mai la Svezia continui a lasciare «tutto aperto», e i due giorni successivi Repubblica e Ansa continuano a rammaricarsi per tanta irresponsabilità mista a incapacità.

Il 5 aprile finalmente la redenzione. Curiosamente è il Corriere della Sera a stufarsi: la Svezia cambia rotta, basta col «tutto aperto»! Il premier si farà dare pieni poteri e poi vedrete, ah se vedrete. Del resto, ci informa l’Ansa, in Svezia il contagio «cresce più rapidamente che altrove», sicuramente colpa della «linea morbida».

Il 7 aprile ci siamo: la Svezia è «pronta per il lockdown», annuncia il Corriere, del resto il premier ha chiesto pieni poteri apposta. Inutile stare a sottolineare il piccolo particolare che il Riksdag – il parlamento svedese – non ci pensa neanche ad elargirli, e figurarsi quanto possa contare il fatto che questi poteri erano chiesti solo per intervenire in modo più rapido.

Ad ogni modo tutto si placa fino alla vigilia di pasqua. Il premier svedese concede un’intervista alla televisione SVT, non ha ancora finito di parlare che l’Ansa titola: «Premier Svezia, non fatto abbastanza»Cosa non si è fatto abbastanza? Ma ovvio, dice il lettore: non hanno chiuso nulla! E l’articolo lo rasserena, perché il virgolettato «mi sembra ovvio che non abbiamo fatto abbastanza» è subito dopo l’attacco del pezzo, che suona così: «Per la prima volta dall’inizio della pandemia di coronavirus il premier svedese ha ammesso di non aver fatto abbastanza. La Svezia ancora è uno dei Paesi con meno restrizioni, non c’è lockdown, bar e ristoranti sono aperti così come la maggior parte delle attività.»

Una confessione, insomma. Che non sfugge al nostro Tarquini, il quale festeggia la pasqua con un bel «mea culpa del premier svedese […] CLAMOROSA [maiuscolo non nostro, N.d.R] e vergognosamente tardiva autocritica del premier svedese, il socialdemocratico Stefan Löfven». Preso dall’entusiasmo, Tarquini si spinge fino a rivelare che le autorità sanitarie avrebbero annunciato che gli ultrasettantenni non saranno più automaticamente curati [1].

Quel che è successo veramente è che Stefan Löfven nell’intervista alla televisione svedese ha affrontato il tema della gestione delle emergenze – incluso il coronavirus – dal punto di vista delle risorse tecniche, sanitarie e organizzative, provando a condividere le colpe del suo smantellamento con i governi precedenti e più in generale con le altre istituzioni del paese. È su questo, e sulla prevenzione del contagio tra gli anziani, che il governo «non ha fatto abbastanza», non sulla sospensione della democrazia.

Può darsi che a breve la Svezia cambi strategia, tuttavia – a meno di non attribuire doti profetiche ai giornalisti italiani – quel che ci è stato raccontato fino a qui è stato, nella migliore delle ipotesi, decontestualizzato, e spesso semplicemente falsificato, facendo di un brandello di notizia – il titolo sensazionalistico di un’agenzia stampa, rigorosamente non svedese – uno scoop.

Perché solo la Svezia è additata come «eretica»?

I conti, per quanto macabri, si faranno alla fine, com’è naturale che sia. Ma non può sfuggire che mentre il governo italiano cambiava idea in continuazione, producendo una mole imponente di decreti, direttive e ordinanze, il sistema svedese ha identificato rapidamente una sorta di road map, in grado di prevedere restringimenti ulteriori via via che, eventualmente, le cose fossero peggiorate.

Che la nostra stampa mainstream abbia obiettivi diversi da quelli di fornire anche solo una parvenza di informazione corretta non vale più neanche la pena di sottolinearlo. Già prima dell’esplosione della pandemia la situazione era drammatica, con Stampa, Corriere della Sera e Repubblica che su tutte le tematiche sociali ed economiche hanno sempre assunto posizioni decisamente reazionarie appoggiandole con vere e proprie menzogne. Il fatto che tra i collaboratori di questi giornali ci siano anche persone che provano a mantenere un briciolo di deontologia non sposta di una virgola il problema, anzi, verrebbe da dire che lo peggiora, considerato che ci si serve di loro per legittimarsi. Basta osservare le posizioni assunte e il modo di riportare le notizie su tutte le questioni più rilevanti degli ultimi anni, dal TAV al problema immigrazione, dall’ordine pubblico alla recrudescenza del fascismo e l’elenco potrebbe continuare a lungo.

Ma appunto, non si deve fare l’errore di ritenere che sia stata la sciatteria dei singoli a far precipitare il quarto potere in un baratro che pare senza fondo. I giornali mainstream sono centri di potere che giocano la loro partita appoggiando pezzi di classe dirigente e, come si è detto varie volte, l’accento su chi violava le assurde e contraddittorie regole emanate di volta in volta dal governo ha avuto lo scopo ben preciso di distogliere l’attenzione dai problemi reali che hanno permesso all’epidemia di scatenarsi praticamente indisturbata.

Chiamare i medici «eroi», invece di interrogarsi seriamente sullo smantellamento del Sistema Sanitario Nazionale; il contagio nelle case di riposo “scoperto” solo quando i morti si contavano ormai a decine; lo spazio dato agli scienziati “in linea” e il confinamento di quelli che avanzavano obiezioni almeno altrettanto rigorose; la presentazione di modelli probabilistici come se fossero scienza dura, verità incontrovertibili; e soprattutto e sopra tutti, il silenzio continuo sul fatto che nelle zone martoriate dal virus gli industriali hanno fatto e fanno i loro porci comodi.

Il trattamento riservato alla Svezia rappresenta un tassello di questo disegno, serve ad assopire i dubbi, a ripetere assordantemente che «un’altra strada non c’è» e che se qualcuno si discosta dalla nostra è un irresponsabile, uno che comunque tornerà presto sui propri passi, pagando cara la deviazione dalla via maestra. Se c’è un canone ci deve essere l’eretico, ma non possono essere troppi ,perché il canone potrebbe traballare. Ecco perché la Norvegia e Finlandia si trasformano in Italie in sedicesimo, lodate per il loro rigore nonostante siano ben lontane dal modello italiano, e in parte in linea con quello svedese. Sono stati i dati di Norvegia e Finlandia – molto migliori di quelli italiani – a dirottare la scelta dell’esempio dalle parti di Stoccolma. Persino il Manifesto è caduto nella trappola della Danimarca (e Norvegia) rigorosa contrapposta alla Svezia permissiva. Questo mostra la pervasività di strategie comunicative che sono grottesche ma evidentemente sin troppo efficaci.

1. [Nota di Wu Ming:] Tarquini riferisce della selezione dei pazienti citando come fonte il Karolinska Institutet di Solma: «i sessantenni-settantenni malati e pregiudicati da altre malattie, secondo il Karolinska Institutet (massima autorità scientifica nazionale) non dovranno piú essere automaticamente curati per evitare un collasso totale delle strutture sanitarie.»

La nostra impressione è che Tarquini si rifaccia piuttosto a una fonte secondaria, cioè la pagina Facebook dell’insigne epidemiologo (e star dei social network) Pierluigi LopalcoÈ stato Lopalco, il 9 aprile, a commentare un documento interno del Karolinska Institutet dandone l’interpretazione poi circolata ovunque. Lopalco ha lavorato in Svezia e conosce la lingua, ma in questo caso ha preso una “topica”.

Dal documento del KI, infatti, risulta che i criteri di etica clinica per l’accesso alle cure intensive adottati in Svezia sono gli stessi che abbiamo qui in Italia, che non sono basati soltanto sull’età anagrafica. Citiamo da un documento della SIAARTI (Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e terapia intensiva):

«Può rendersi necessario porre un limite di età all’ingresso in [terapia intensiva]. Non si tratta di compiere scelte meramente di valore, ma di riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza e secondariamente a chi può avere più anni di vita salvata, in un’ottica di massimizzazione dei benefici per il maggior numero di persone. In uno scenario di saturazione totale delle risorse intensive, decidere di mantenere un criterio [“curare prima chi arriva prima”] equivarrebbe comunque a scegliere di non curare gli eventuali pazienti successivi che rimarrebbero esclusi dalla Terapia Intensiva […]  La presenza di comorbidità e lo status funzionale devono essere attentamente valutati, in aggiunta all’età anagrafica. È ipotizzabile che un decorso relativamente breve in persone sane diventi potenzialmente più lungo e quindi più [dispendioso di risorse] nel caso di pazienti anziani, fragili o con comorbidità severa.»

Molto strano che uno come Lopalco ignorasse tali criteri. Se li trova sbagliati a Stoccolma, allora dica che sono sbagliati anche a Milano o Bologna. Viceversa, se gli vanno bene qui, dovrebbero andargli bene anche là. Ma forse ha solo letto in fretta il documento del KI, concludendo che ormai, in Svezia, basti avere tot anni per esser condannati a morire di covid-19.

Una certa qual fretta da social Lopalco l’ha già dimostrata in altre occasioni. Ricordiamo quando, nella foga di perculare Boris Johnson ammalato di Covid-19, scrisse su Twitter «il virus ci vede benissimo», mentre ovunque si infettavano e morivano lavoratori, soggetti deboli, poveri ecc. Forse da lo palco gli converrebbe scendere per un po’, ché il suo mestiere è un altro e i riflettori bene non gli fanno. [WM]

Monica Quirico, storica, è honorary research fellow presso l’Istituto di storia contemporanea della Södertörn University di Stoccolma. La sua ricerca verte sulla storia e la politica svedese, spesso in prospettiva comparata con l’Italia. Tra le sue pubblicazioni più recenti, Socialismo di frontiera. Autorganizzazione e anticapitalismo (Torino, Rosenberg & Sellier, 2018), scritto con Gianfranco Ragona.

Roberto Salerno è dottore di ricerca in Scienze Politiche e relazioni internazionali. Si è occupato di analisi dei processi decisionali e collabora con Palermograd e con la rivista di storia delle idee inTrasformazione.

L’articolo originale è stato pubblicato su wumingfondation.

Foto: skytg24