Un lampo di luce ha improvvisamente illuminato il tetro schacchiere Mediorientale delle mille crisi irrisolte, profonde ed intricatissime, dalla spaccatissima Libia del post-Gheddafi alla frantumata Siria di Bachar Al Assad  passando per il martoriato Libano che dall’orlo è definitivamente piombato nel fondo dell’abisso: l’inaspettato Accordo di Pace e Cooperazione Economico-Scientifico-Commerciale annunciato la scorsa settimana tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti  (UAE) sotto l’egida e con i buoni uffici degli Stati Uniti per il tramite del suo Presidente (e del genero di quest’ultimo, Jared Kushner) che ne ha dato ieri personalmente annuncio dalla scrivania dello Studio Ovale.

Il Trattato, ufficialmente denominato ‘Accordi di Abramo’ (il Patriarca è il capostipite riconosciuto dalle tre principali religioni monoteiste) in verità non è stato ancora ufficialmente siglato dalle parti. Se ciò avverrà, gli Emirati del Golfo, guidati dal Crown Prince Mohammed Bin Zayed al Nahyan, saranno il terzo paese arabo di sempre dopo l’Egitto di Anwar Sadat nel 1979 e la Giordania di re Hussein nel 1994 a firmare un accordo di pace con Israele.

In un comunicato congiunto UAE e Israele hanno dichiarato che l’iniziativa condurrà i due paesi a una stretta cooperazione su investimenti, turismo, sicurezza, tecnologia, energia e altre aree incluso il rafforzamento della già iniziata collaborazione scientifica sul vaccino anti-Covid19, consentendo per la prima volta voli regolari diretti ai passeggeri e l’apertura di reciproche missioni diplomatiche e rappresentanze commerciali.

A sinistra, il principe dell’UAE Mohammed Bin Zayed al Nahyan 

Aldilà delle risapute differenze di campo, i due paesi mediorientali presentano in realtà molti punti che li accomunano ben oltre la portata degli accettati stereotipi. Entrambi paesi ‘giovani’ sia per data di costituzione (1948 e 1971) che per composizione anagrafica delle rispettive popolazioni che presentano a loro volta un alto grado medio d’istruzione. Entrambi con tecnologia ed innovazione visti come veri e propri cavalli di battaglia per lo sviluppo interno ed internazionale, tutt’e due fortemente ‘business oriented’ con città e capitali costruite secondo i più moderni criteri di sviluppo urbano (Dubai, Tel Aviv, Abu Dhabi), Israele e UAE hanno da alcuni anni intrapreso una tacita politica di distensione in chiave anti-iraniana ed anti-sciita ravvisando entrambi in Teheran un comune nemico da combattere anche a costo di superare storiche e radicate divergenze.

La portata politico-diplomatica dell’Accordo, sfaccettata e complessa, ha immediatamente sollecitato l’attenzione dei politici e dell’opinione pubblica facendo presagire d’acchito un potenziale più ampio riallineamento diplomatico nella regione. Inserito nel quadro di una piena normalizzazione delle reciproche relazioni in cambio della sospensione da parte di Israele dell’annessione dei Territori occupati nel 1967, l’Accordo mette in pratica fine a lungo stallo politico nella regione. L’iniziativa potrebbe spingere altri paesi arabi, primi fra tutti quelli del Consiglio per la Cooperazione del Golfo (GCC Countries), a seguire gli UAE nella stessa politica di distensione con Israele in chiave anti-iraniana, da realizzare mediante accordi bilaterali per bypassare la sterile diplomazia multilaterale che la Lega Araba da decenni persegue senza alcun successo tra mille divisioni e conflitti interni.

L’iniziativa di pace e collaborazione si inserisce nel più ampio quadro del c.d. Piano di Pace Trump per il Medio Oriente annunciato lo scorso 28 gennaio alla Casa Bianca che suscitò reazioni fortemente contrapposte di totale rigetto ma anche di misurata approvazione come nel caso dell’Ungheria che per bocca del proprio Ministro degli Esteri, Péter Szijjártó, lo definì il “miglior punto di partenza per il dialogo con le migliori chance per essere implementato”.

Donald Trump dà l’annuncio dell’Accordo dal celebre Studio Ovale

É risaputo che in Medio Oriente il Governo Orbán cerca innanzitutto quella stabilità politico-diplomatica che dovrebbe garantire la sensibile riduzione ed un maggior controllo dei traffici migratori verso l’Europa riuscendo cosi ad abbassare il livello di esposizione politica personale e del proprio esecutivo derivata dalla criticata gestione della crisi del 2015. Sul piano umanitario la diplomazia ungherese in Medio Oriente è peraltro impegnata nella tutela e protezione di credenti cristiani curdo-irakeni nella regione di Erbil attraverso una rete di aiuti coordinata dalla Hungarian Inter-Church Aid Association (Ökumenikus Segélyszervezet).

La forte alleanza che lega l’Ungheria di Orbán ad Israele e al suo premier, gli accordi di esplorazione e ricerca petrolifera stipulati con l’Oman, paese da molti visto come possibile futuro aderente agli Accordi di Abramo, sono ulteriori elementi da prendere in considerazione per ipotizzare eventuali sviluppi della politica estera ungherese a seguito dello storico accordo diplomatico.

Naturalmente il punto focale dell’Accordo (almeno quello apparente) rimane la definizione della questione Israelo-Palestinese con l’annunciato (ma anche subito smentito) temporaneo congelamento della prevista annessione dei Territori occupati (Samaria e Giudea). Per il premier israeliano Benjamin Netanyahu l’accordo con gli Emirati segna “l’inizio di una nuova era tra Israele e il mondo arabo” aggiungendo che lo stop ai piani israeliani di annettere parti della Cisgiordania è però solo temporaneo: “Non rinunceremo mai ai nostri diritti sulle nostre terre” e “non c’è alcun cambiamento nei miei piani di annessione, in totale coordinamento con gli Usa” ha proseguito il premier israeliano.

L’annuncio ha di fatto tolto il terreno sotto i piedi dell’Autorità Palestinese che per bocca del suo Presidente Mahmoud Abbas ha esplicitamente e duramente denunciato l’Accordo definendolo un vero e proprio tradimento richiamando con effetto immediato il proprio delegato diplomatico da Abu Dhabi.

 

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Foto: interris.it, France 24, Newsweek