Una vignetta di Silva dei primi anni ’70 raffigurava i tre elementi più rappresentativi della grande scuola ungherese, identificandoli in Ferenc Puskás, Nándor Hidegkuti e József Bozsik: per il celebre disegnatore, Puskás era dotato di potenti mezzi atletici e tecnica eccelsa, Hidegkuti aveva dalla sua l’esperienza di lunghe stagioni agonistiche, mentre Bozsik – ritratto con in braccio una volpe che ammiccava strizzando l’occhio – vantava genialità d’intuizione ed autocontrollo. Per quest’ultimo mai sintesi tecnica si è rivelata a tal punto calzante, perché il mediano della leggendaria Honvéd e della nazionale passata alla storia calcistica come l’Aranycsapat era il vero cervello della squadra, la rotella che permetteva all’intero ingranaggio di funzionare alla perfezione.

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Boszik e Virgili alla partita Ungheria-Italia del 1955.

Se Hidegkuti è stato l’antesignano del falso nueve, Bozsik è il prototipo del playmaker, del regista che alimenta con ritmo costante l’azione e la fa girare per il verso giusto. Molto dotato sotto il profilo della visione di gioco, sapeva farsi valere anche in fase d’interdizione, ma il vero valore aggiunto di cui disponeva era la sua straordinaria capacità d’intuire quale fosse il momento buono per inceppare le trame avversarie e far ripartire i suoi compagni. In nazionale aveva nel dinamico József Zakariás il suo complemento ideale, davanti alla difesa a tre orchestrava l’intera manovra e dettava i tempi.

Dove offrì un saggio magistrale delle sue qualità tecnico-tattiche fu, probabilmente, nella storica amichevole che l’Ungheria disputò a Wembley il 25 novembre 1953, dinanzi ad oltre centomila spettatori, sfidando in casa sua l’Inghilterra, che il football si vantava di averlo inventato. Tutti sanno come andò a finire, un 6-3 roboante in favore dei magiari, e molti ricordano la tripletta di Hidegkuti insieme ai due acuti di Puskás, ma sono in pochi a rammentare che la rete del 5-2, pochi minuti dopo l’intervallo, fu siglata proprio da Bozsik con una scudisciata potente e precisa da fuori area. Se per tutto quell’incontro si ebbe la sensazione che i ‘maestri’ inglesi fossero completamente in balia degli irriverenti allievi della scuola magiara lo si deve anche (se non soprattutto) al mediano ungherese, che con la sua pervadente onnipresenza a centrocampo mandò del tutto in confusione i dirimpettai d’oltremanica, accorciando o allungando gli spazi di gioco a suo piacimento e costruendo innumerevoli schemi come il più talentuoso degli ingegneri.

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Vignetta di Carmelo Silva sulla partita Ungheria-Inghilterra del 1953.

In effetti, se nell’Ungheria dei tempi d’oro Puskás e Kocsis causavano sfracelli sotto porta, se Hidegkuti dietro di loro rappresentava il collante perfetto tra centrocampo ed attacco,  se le ali László Budai e Zoltán Czibor fungevano da acuminate spine nel fianco di ogni difesa avversaria, Bozsik era l’elemento in grado di sapere perfettamente quando innescare ognuno dei suoi compagni, quando abbassare il ritmo per fiaccare le velleità dei rivali e quando, invece, innalzarlo per approfittare di un loro sbilanciamento o della loro stanchezza. Era sua la regia alle Olimpiadi di Helsinki del ‘52 – quando l’Ungheria si fregiò della medaglia d’oro anche grazie ad un suo gol nei quarti di finale contro la Turchia, annientata per 7-1 – e, due anni dopo, ai mondiali svizzeri, in occasione dei quali i magiari dovettero arrendersi alla Germania ovest nella finale di Berna.

La rivolta dell’autunno 1956 stravolse l’assetto di una squadra che giocava a memoria: infatti, poco dopo Czibor e Kocsis raggiunsero il connazionale László Kubala al Barcellona, Puskás riparò sempre in Spagna, ma al Real Madrid di Di Stefano, mentre il portiere Gyula Grosics fu tratto in arresto con l’accusa di tradimento e spionaggio. La corposa fuga oltreconfine venne condannata con prevedibile fermezza dai vertici politici dell’epoca ma, comunque, risultò fatale alla nazionale, poiché nei mondiali svedesi del ’58 il selezionatore Lajos Baróti, nel frattempo succeduto a Gusztáv Sebes, poté contare solo sul riabilitato Grosics, sull’attempato Hidegkuti e su Bozsik stesso che, fervente sostenitore della causa socialista, ad espatriare non ci aveva mai pensato. Non bastò, Lajos Tichy, pur dotato di un buon fiuto del gol, non era pari a Kocsis e Dezső Bundzsák nemmeno alla lontana ricordava Puskás. L’Ungheria uscì di scena già nella fase a gironi, cedendo il passo alla rappresentativa di casa guidata da Gren, Hamrin e Liedholm, nonché al Galles del possente John Charles. Fu il mesto canto del cigno per Bozsik, che con la sua sagacia tattica è diventato punto di riferimento e modello da imitare per tutti gli aspiranti registi del suo tempo e del futuro.

 

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Foto: magyarfutball, eupallog.