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L’Ungheria, nel corso dell’ultimo decennio, è divenuta un caso classico nella discussione sulla democrazia illiberale, ancor più di recente con l’ascesa di personaggi come Matteo Salvini, Donald Trump o Jair Bolsonaro nel panorama politico internazionale. Attorno a questo tema è nato questo dialogo con Gábor Scheiring, ex parlamentare di opposizione in Ungheria (LMP-Párbeszéd), sociologo (Ph.D, Cambridge) e ricercatore all’Università Bocconi. Gábor Scheiring ha recentemente pubblicato il libro “The Retreat of Liberal Democracy. Authoritarian Capitalism and the Accumulative State in Hungary” (2020), edito da Palgrave Macmillan.

Recentemente, l’Ungheria – insieme alla Polonia – ha posto il veto sul bilancio UE e sul Recovery Fund, principalmente a causa delle condizionalità sul rispetto dello stato di diritto. L’indebolimento della rule of law in Ungheria è una questione seria dal 2010, ossia dalla “inversione a U” dalla democrazia liberale, come l’ha chiamata l’economista János Kornai. Quali sono le origini di questa trasformazione illiberale? Com’è riuscito, e come riesce, il governo a indebolire le istituzioni dello stato di diritto?

I due paesi – Ungheria e Polonia – condividono una visione illiberale, ed entrambi i regimi sono emersi dalla disillusione degli elettori per la sinistra neoliberista. Entrambi i paesi hanno vissuto un arretramento democratico negli ultimi anni, l’Ungheria dal 2010, la Polonia dal 2015. Intimidiscono i media, si intromettono nell’attività dei tribunali, colmano le istituzioni indipendenti di lealisti, creano un playing field così che per l’opposizione sia molto più difficile batterli. Comunque, i due paesi si differenziano su aspetti cruciali. Il sistema illiberale della Polonia si affida meno all’élite economica rispetto al regime ungherese, il quale tende invece essenzialmente a redistribuire le risorse verso l’alto. Dunque, credo che la posta in gioco sia più alta per Orbán. Per la Polonia, il veto è più una questione politica. Per l’Ungheria, riguarda sia la politica, sia l’abilità di mantenere lo status quo illiberale, sia i suoi fondamentali economici.

Il regime di Orbán dipende dalle risorse UE. I cronies – amici e famiglia – sono i maggiori vincitori dei fondi UE. Tuttavia, è un errore ridurre l’Orbanomics alla corruzione. Anzi, un più ampio segmento dell’élite economica ne trae beneficio: un’ampia porzione della borghesia nazionale e anche di imprese transnazionali. Anche le imprese automobilistiche tedesche sono tra i maggiori vincitori; perciò, sono anche sostenitori cruciali del regime. Esse hanno un ruolo decisivo nella strategia tollerante della CDU (Unione Cristiano-Democratica di Germania) e del Partito Popolare Europeo nei confronti di Orbán. Le élite conservatrici europee e le aziende stabilizzano la democrazia illiberale in Ungheria.

Tuttavia, tollerare gli illiberali sta diventando politicamente costoso nell’Europa occidentale, e pare che i politici, conservatori inclusi, stiano iniziando a prendere posizione contro Orbán. Le élite UE ora perdono la faccia se li sostengono. E Orbán ha molto da perdere con la condizionalità sullo stato di diritto. È un classico stallo. Ma una soluzione tecnica c’è. L’UE dovrebbe procedere col Recovery Fund come un trattato intergovernativo e adottare la clausola sulla rule of law senza il bilancio, che non richiederebbe l’unanimità. Il punto è se c’è volontà politica; se proteggere la democrazia è tanto importante per le élite UE quanto lo era l’austerità quando la applicarono in Grecia. (L’intervista si è svolta prima che la Germania mediasse un accordo controverso tra Ungheria, Polonia e il resto dell’UE.)

A parte alcune questioni appena citate – ad esempio il clientelismo, l’importanza dei fondi UE, le relazioni con le società transnazionali –, ci sono vari altri aspetti interessanti sul ruolo dello stato nell’economia ungherese. Per esempio, gli asset statali sono cresciuti di 2.5 volte tra il 2010 e il 2015, secondo le stime dell’economista Éva Voszka (2018). Inoltre, l’economista János Kornai (2015) avverte di una “ossessione della centralizzazione” dell’amministrazione (ad es., scuole, ospedali, ecc.), descrivendo “una gerarchia piramidale [che] è emersa e si è solidificata, con Orbán alla sommità”. Fino a che punto il governo ungherese esercita un controllo sull’economia in termini di amministrazione e regolazione?

È vero, il ruolo dello stato è cresciuto in diversi modi dal 2010. Lo stato è più attivo come proprietario di asset economici. È più attivo in termini di investimenti pubblici. Le spese dello stato per funzioni economiche sono balzate dall’11.6% al 18.9% del bilancio pubblico centrale tra il 2009 e il 2015, ed erano ancora al 16.4% nel 2018. Gli investimenti pubblici hanno preso il posto di buona parte degli investimenti esteri, che hanno subito un declino sotto Orbán rispetto al periodo pre-2010.

I tagli in protezione sociale, istruzione e sanità hanno finanziato l’imponente redistribuzione verso l’alto sotto forma di tagli di tasse, prestiti agevolati, e maggiori investimenti pubblici. Dunque, quando si tratta di spesa sociale, lo stato è più taccagno. Nuove misure punitive accompagnano il taglio del welfare, come criminalizzare l’essere un senzatetto, l’intensificarsi della segregazione nelle scuole, l’istituzione di relazioni clientelari (patron-client) attraverso il programma di lavori pubblici, l’esclusione dei disoccupati da varie forme di supporto abitativo, e la crescita marcata della spesa pubblica per sicurezza e ordine pubblico. Anche la spesa in istruzione e sanità si è ridotta. Lo stato di Orbán è una sorta di capitalismo per i poveri e socialismo per i ricchi.

Nel mio libro, lo chiamo lo stato accumulativo (accumulative state): è tutta questione di accumulare ricchezza. Orbán ha centralizzato il potere nelle mani dell’esecutivo o, più precisamente, di un piccolo gruppo di persone attorno a lui. Uno sforzo coordinato di ri-feudalizzare la sfera pubblica ha accompagnato questa quasi totale presa di potere sul sistema di governo. Per proteggersi da un possibile contraccolpo proveniente dai perdenti dell’accumulazione di capitale, Fidesz ha ridimensionato le istituzioni della democrazia liberale. In altre parole, l’autoritarismo di Orbán è, in parte, un corollario all’accelerazione dell’accumulazione di capitale in reazione all’esaurimento della fase di sviluppo dipendente. Certo, il governo sa bene che l’oppressione diretta nel 21esimo secolo è troppo costosa e non abbastanza efficiente. Dunque, esso cerca anche di legittimare sé stesso attraverso elezioni, anche se fino a un certo punto. Mentre conduce una politica divisiva di conflitto di classe dall’alto, Fidesz si rappresenta come garante di unità e sicurezza in mezzo alle minacce imminenti delle migrazioni e del terrorismo. Questi elementi del populismo autoritario aiutano a legittimare l’egemonia illiberale di fronte a una crescente polarizzazione sociale.

Tuttavia, è cruciale notare che questo stato forte non è indipendente in senso weberiano; non è uno stato sviluppista (developmental state) che può generare sviluppo economico nel lungo periodo. Costruendo lo stato accumulativo, Fidesz è diventato un partito di stato corporativo. Questo è fondamentalmente in conflitto col razionalismo della burocrazia weberiana basata sulle regole, la colonna portante dello stato sviluppista. Lo stato accumulativo ha subordinato l’apparato statale all’accumulazione di ricchezza dei tre maggiori segmenti del nuovo blocco di potere: Fidesz, capitalisti nazionali, e capitale transnazionale. Questo stato accumulativo non può implementare obiettivi di lungo termine e non può resistere a pressioni di breve termine proveniente dall’élite economica e politica.

Il nuovo stato accumulativo prioritizza l’accumulazione nel breve periodo focalizzandosi su modi di produzione labor-intensive. L’Ungheria rimane dunque bloccata nel suo ruolo di piattaforma d’assemblaggio a basso valore aggiunto nelle catene tecnologiche globali del valore. Il paese è in una classica situazione di middle-income trap. È uno stato forte ma, in vari modi, disfunzionale.

Nel tuo nuovo libro, elabori una questione che hai già menzionato qui sopra, secondo cui questa svolta illiberale ha le sue radici nelle tensioni dovute alla globalizzazione, nella disillusione degli elettori per la sinistra neoliberista, e nel crescente (neo-)nazionalismo. Ma quali sono le cause di questo sentimento di disincanto e delusione, e come sono riusciti (e riescono tuttora) Orbán e l’élite ungherese a sfruttarlo, attrarre elettori dalle classi lavoratrici, e costruire una narrativa e una politica identitaria?

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