Nascere per caso / nascere donna / nascere povera / nascere ebrea / è troppo / in una sola vita 

Edith Bruck, Versi vissuti – Poesie (1975-1990)

Una vita difficile

Edith Bruck è una scrittrice, poetessa e traduttrice di origine ungherese. Vive a Roma e scrive in italiano. A lei si devono molte traduzioni delle opere di Gyula Illyés, Attila József e Miklós Radnóti. Edith però è molto di più di tutto questo: è una degli ultimi testimoni diretti delle pagine più nefaste del Novecento, la Shoah.

Nasce nel 1931 in una famiglia ebrea poverissima a Tiszakarád, un piccolo paese nel nord-est dell’Ungheria. A tredici anni viene deportata, vivrà  in diversi campi di concentramento, ma grazie alla sua tenacia e a un pizzico di fortuna riesce a far ritorno dall’inferno. Qualcuno la definisce la Anne Frank sopravvissuta. Dopo la guerra e dopo anni di peregrinaggio trova accoglienza in Italia. Si sposa con il regista Nelo Risi e tra i due, oltre al legame sentimentale, nasce anche un sodalizio artistico. A Roma sarà Primo Levi a incoraggiarla a scrivere e a raccontare la sua storia sull’Olocausto.

Il suo libro d’esordio che tratta la Shoah viene pubblicato nel 1959 con il titolo Chi ti ama così. Ne seguiranno altri. Con il tempo si pone come obiettivo nella vita quello di testimoniare almeno una parte degli orrori che ha vissuto, di narrare ciò che non si può immaginare e di raccontare anche a coloro che rifiutano di crederci. Ancora oggi, a novant’anni, porta la sua esperienza ovunque trovi orecchie che la ascoltino. Edith, con un’energia inesauribile, continua a scrivere. Forse è consapevole che con il passare del tempo i testimoni diretti dei campi di concentramento non ci saranno più e che è alto il rischio di dimenticare o di sminuire i crimini.

La scrittura come testimonianza

L’ultimo romanzo pubblicato nel gennaio 2021, Il pane perduto, è stato selezionato tra i dodici libri candidati alla LXXV edizione del Premio Strega 2021 e ha vinto la categoria Giovani perché tra tutti è stato il libro più votato da una giuria di ragazzi tra i sedici e i diciotto anni. A febbraio 2021 Papa Francesco è andato a trovarla a casa sua per ringraziarla per la sua testimonianza.

Edith Bruck papa

Edith Bruck con papa Francesco. Foto: Avvenire

La particolarità di Edith Bruck consiste nel fatto che non si limita a raccontare solo l’esperienza dell’Olocausto, ma descrive anche la vita di una famiglia ebrea in miseria prima della guerra nonché le condizioni dopo la liberazione. Solo così possiamo avere un quadro completo di un’epoca e capire le tappe che hanno condotto ad una delle esperienze più tragiche del Novecento. Man mano che leggiamo le righe del romanzo, scopriamo che la deportazione, la prigionia, le umiliazioni e i maltrattamenti vengono raccontanti in modo preciso, pacato e non si percepisce nessun sentimento di odio nei confronti dei carnefici.

Ditke, la bambina protagonista del romanzo, riesce a trovare quel lumicino di speranza perfino nelle pagine più buie della Storia che la aiuta a sopravvivere e a credere che forse l’umanità non è del tutto perduta. La storia però non finisce qui. I sopravvissuti alla Shoah non trovano l’accoglienza che spetterebbe loro una volta tornati a casa. La Ditke del romanzo (diminutivo di Edit e alter ego della scrittrice) non vede futuro nel suo paese e decide di emigrare: prima in Israele e poi in Italia.

Qui finalmente troverà quella che chiama casa e dove adotta una nuova lingua per raccontare. Perché, come lei stessa afferma nel libro, aveva bisogno di un’altra lingua, una lingua che feriva meno di quella natia per raccontare Auschwitz. Il suo dolore si manifesta anche attraverso la lingua, ma in misura diversa.

Nelle interviste Edith Bruck racconta che per lei pronunciare la parola kenyér in ungherese suscita un’emozione completamente diversa rispetto alla parola pane in italiano. Se lo dice in ungherese ripensa a sua madre, ripensa alla povertà, al pane perduto in quel lontano giorno di cui ci racconta nell’ultimo romanzo. Attraverso un complicato processo linguistico riesce a raccontarci il proprio dolore e forse a mitigarlo in una lingua straniera, custodendone allo stesso tempo il nucleo nella sua forma integra.

Pane perduto

Il pane perduto. Foto: Feltrinelli

Il rifiuto dell’oblio

Edith Bruck da più di sessant’anni lotta con gli strumenti a sua disposizione affinché queste pagine del Novecento non cadano nell’oblio. Il romanzo Il pane perduto si conclude con una toccante lettera a Dio. La scrittrice gli chiede di non toglierle la memoria perché “ […] ho ancora da illuminare qualche coscienza giovane nelle scuole e nelle aule universitarie dove in veste di testimone racconto la mia esperienza da una vita. Dove le domande più frequenti sono tre: se credo in Te, se perdono il Male e se odio i miei aguzzini. […] Solo alla terza ho una risposta certa: pietà sì, verso chiunque, odio mai, per cui sono salva, orfana, libera e per questo Ti ringrazio, nella Bibbia Hashem, nella preghiera Adonai, nel quotidiano Dio.



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Foto di copertina: ilbolive.unipd