A metà febbraio Viktor Orbán, in occasione del consueto messaggio sullo “stato della nazione”, aveva bollato come “social-nazista” l’ipotesi di una lista unitaria di tutta l’opposizione in vista delle prossime elezioni europee, riferendosi chiaramente alla remota ipotesi di un’alleanza tra il Partito Socialista e la compagine di destra radicale Jobbik. Inoltre, qualche giorno dopo l’uscita del premier, Gergely Karácsony, uno dei principali esponenti della sinistra, nonché ex candidato premier della coalizione socialista alle elezioni politiche del 2018 ed attuale candidato a sindaco di Budapest, aveva definito “non antisemita” la proposta del 2012 di Jobbik di stilare una lista dei membri del parlamento di religione ebraica. Una dichiarazione, quella di Karácsony, che ha immediatamente suscitato una dura reazione dell’esecutivo, che ha subito colto l’occasione per attaccare, ancora una volta, la “strana coppia” socialista-nazista.

Tuttavia, negli ultimi anni sono stati molti i tentativi del partito di destra radicale di cambiare volto, lasciando definitivamente alle proprie spalle l’identità neonazista. Nel recente passato il tentativo di virare verso il centro è costato molto in termini umani alla classe dirigente di Jobbik, che a maggio dell’anno passato ha subito una consistente scissione, che ha dato vita a Mi Hazánk (la nostra patria), nuovo movimento di estrema destra. Ma anche in termini elettorali il tentativo di diventare un partito popolare, almeno fino ad oggi, sembra fallito. Infatti, nonostante l’incremento di tre seggi in parlamento in seguito all’ultima tornata elettorale, l’obiettivo della dirigenza di Jobbik era quello di trasformarsi in forza alternativa di governo.  Non a caso, i deludenti risultati portarono alle immediate dimissioni di Gábor Vona, segretario di Jobbik per ben undici anni.

È proprio in virtù di questo costante tentativo di virare verso il centro che le parole pronunciate da Orbán nel messaggio alla nazionale non sono andate giù al capogruppo di Jobbik in Assemblea Nazionale, Marton Gyöngyösi. Così, la rivista Válasz ha deciso di intervistarlo, dandogli l’occasione, una volta per tutte, di spiegare il rapporto del partito con la comunità ebraica e le tendenze antisemite che lo hanno sempre contraddistinto, analizzando anche il tentativo in corso di rendere più miti alcune sue posizioni storiche.

La lunga intervista rilasciata da Gyöngyösi potrebbe essere definita come una via di mezzo tra un’abiura e un’arrampicata sugli specchi. Da un lato, infatti, il capogruppo di Jobbik fa un maldestro tentativo di mea culpa per le frasi da egli stesso pronunciate nel 2012 in parlamento, con le quali chiedeva che gli ebrei membri del parlamento venissero schedati per motivi di sicurezza nazionale. Si trattò di un malevolo malinteso, secondo il deputato, e non di antisemitismo. Intendeva dire israeliani, non ebrei.

Dall’altro, invece, Gyöngyösi ammette una tendenza antisemita nel passato, ma solo come prodotto elettorale. E su questo punto vale la pena soffermarsi. Infatti, Gyöngyösi afferma che la carta antisemita e razzista venne giocata dalla dirigenza di Jobbik in maniera del tutto conscia, dato che all’epoca, ossia a partire dal 2006, il partito rappresentava il punto di riferimento di una subcultura legata al neonazismo. Tuttavia, secondo Gyöngyösi: “Ciò non significa che Jobbik, come comunità politica, fosse effettivamente razzista o antisemita […] Jobbik non è mai stato un partito antisemita, anche se molti dei nostri membri volevano che lo fosse” – e aggiunge: “Essere stati un partito di nicchia ci ha portato successo, ma anche esposto ad un grande rischio, ossia quello di rappresentare una subcultura alla quale dover rendere conto, e dalla quale ricevere feedback”, chiudendosi, di conseguenza, ad altri settori della società. Ma Gyöngyösi spiega anche i motivi che hanno portato Jobbik ad una più mite posizione: “Questo cambiamento è stato parzialmente guidato da ragioni di razionalità politica. Non si può crescere sostenibilmente e diventare partito di governo, a meno che non si sia posizionati nel centro. Inoltre, abbiamo capito che fosse necessario cambiare rotta nel momento in cui il governo [Orbán] ha iniziato ad utilizzare la retorica ed i temi dello Jobbik degli albori per insidiare lo stato di diritto”. Infine, il capogruppo sostiene che “se si vuole far crescere la società e la nazione, non basta dire brutalmente la verità, impiegare argomenti taboo, e offendere chiunque non sia uguale a noi”.

Insomma, se si vuole governare, non si può fare tutto ciò che Jobbik ha sempre fatto dal giorno della sua fondazione.

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