Articolo di Patrizia Danzè

Visionario e concreto, pragmatico e utopista, Yona Friedman è scomparso lo scorso 20 febbraio 2020.

E così è andato via anche lui, tra i leoni ungheresi nati negli anni ’20 del Novecento. Grande maestro dell’agorà dell’arte, della cultura, cittadino del mondo, Yona (Janos Antal alla nascita) Friedman, filosofo e poeta dell’architettura, è scomparso a 96 anni lo scorso 20 febbraio, a Parigi, sua patria d’elezione.

 

Mobile Architecture, People’s Architecture – photo Musacchio&Ianniello, courtesy Fondazione MAXXI

Ma poi, svanendo il sogno della terra promessa, Friedman  preferì vivere l’esilio (condizione esistenziale di tanti intellettuali del Novecento) a Parigi dove risiedette stabilmente dal ’56. E fu la capitale francese, ricca di fermenti culturali, a trasformare l’utopia in opportunità per l’uomo che voleva occuparsi di res, di pragmata, di humanitas, anche se da cittadino globale visse in America e spesso anche in Italia. Se le utopie nascono da un’insoddisfazione collettiva, scriveva in un suo libro-guida, “Utopie realizzabili” (2016), possono nascere però alla condizione che esista un rimedio o una soluzione che mettano fine a tale insoddisfazione.

E dunque l’utopia può diventare realizzabile in presenza di due condizioni: la prima è che ottenga un consenso collettivo, la seconda è che ci sia un progetto che subentri all’utopia grazie alla tecnica.Senza techne e senza ethos, secondo la lezione che da Aristotele passa a Vitruvio e ai più grandi architetti e urbanisti della letteratura di tutti i tempi, non può esserci eudamonia, non può esserci benessere, felicità, soprattutto nel nostro tempo di megalopoli, di città verticali, afflitte peraltro da brutte periferie dove non c’è architettura contemporanea ma solo edilizia.

Alla grande utopia immobilista con la sua condizione di attesa (è la paura del cambiamento a favorire l’attuale tendenza conservatrice, e, infatti, sono visibili ogni giorno molteplici utopie immobiliste realizzate) opponeva la sua teoria di architettura mobile. Friedman era un rivoluzionario e nel 1956, al X Congresso Internazionale di Architettura Moderna di Dubrovnik, presentò il suo “Manifesto dell’architettura mobile” che, muovendo da Le Corbusier, esponeva la sua filosofia dell’abitare secondo la quale in un paesaggio (inteso come l’insieme di ambiente, paesaggio e patrimonio artistico), da vivere e non solo da vedere e che quindi incarna i valori essenziali per la democrazia (come ci ricorda l’archeologo e storico dell’arte Salvatore Settis), bisogna tenere conto della possibilità di realizzare strutture mobili.

Mobile Architecture, People’s Architecture – photo Musacchio&Ianniello, courtesy Fondazione MAXXI

E in base alla suateoria dell’architettura mobile, opponeva alla idea modernista secondo cui sono gli abitanti a doversi adattare a un edificio, quella che è l’edificio a doversi adattare agli abitanti. Concreto e visionario  al tempo stesso, sviluppò progetti come la Villa Spaziale (uno spazio cittadinodove, secondoil concetto di struttura reticolare, gli abitanti vivono e lavorano in edifici di loro progettazione),i Rifugi Cilindrici e le Cabine del Sahara, sino ai progetti da realizzare sulla spinta dell’urgenza dell’attualità, con uno studio per un campo di rifugiati.

Un paesaggio posturbano con nuove forme comunicative dell’abitare che lo spingeva continuamente alla sperimentazione, come scrive e teorizza in “Tetti” (2017) testo che raccoglie più di 20 suoi manuali, e in cui, tra bozzetti e disegni, modelli e fotografie (molti, peraltro, raccolti nella Città Spaziale, la casa di Friedman in Boulevard Garibaldi, nel 15° arrondissement parigino), richiama la responsabilità della sostenibilità per tutti, proponendo soluzioni interessanti per tutte le società (inevitabilmente mobili) ma privilegiando, per priorità, le tecniche accessibili alle persone più povere.

Negli anni Sessanta sviluppò l’idea di città pontee partecipò alla temperie utopica dell’architettura di quegli anni nota come “Età della megastruttura”. Nel 1978 gli fu commissionata la progettazione del Lycée Bergson ad Angers, in Francia, frutto dell’ “auto-progettazione”. Nel 1987 a Madras, in India, Friedman completò il Museum of Simple Technology in cui vengono applicati i principi di autoregolazione e di auto-costruzione degli abitanti a partire da materiali locali come il bambù. Ma i suoi interessi erano molteplici, tanto che le sue ricerche nel campo della fisica hanno avuto come esito due libri di fisica teorica, “L’ordine complicato” (2008) e “L’universo erratico” (2007). Con l’architetto Jean-Baptiste Decavèle (con il quale tra il 1996 e il 2008 aveva realizzato  Balkid-Island, una fantasia poetica che prende il nome da Balkis, cane di Friedman, su un’isola del Polo Nord, un omaggio ai grandi viaggiatori di tutti i tempi) realizzò nel 2016 in Abruzzo (nel comune di Loreto Aprutino, Pescara, Abruzzo) l’installazione Site-Specific “No man’s land”, un grande “arazzo” naturale fatto di sassi di fiume, di 1000 canne di bambù e 200 alberi di noce, un museo nel verde, un “museo senza pareti”, secondo la sua concezione. Sempre nel 2016 era stato invitato a pensare a un intervento temporaneo a Londra per il Serpentine Pavilion.

Mobile Architecture, People’s Architecture – photo Musacchio&Ianniello, courtesy Fondazione MAXXI

Ed è del 2019 un altro Site-Specific, lo Space-Chain Phantasy-Miami, la sua prima opera pubblica negli Stati Uniti realizzata nell’ambito di un’iniziativa promossa dall’Institute of Contemporary Art di Miami e dal Miami Design District. Friedman insegnò in vari atenei americani, tra i quali MIT, Princeton e Harvard, partecipò a mostre ed eventi in tutto il mondo (originale quella al MAXXI di Roma con lo Street Museum del 2017, una collezione straordinariadella gente comune, alla quale con oggetti poveri collaborava il pubblico), ebbe collaborazioni internazionali, tra le quali quelle con le Nazioni Unite e l’Unesco. Membro onorario della Royal Academy of Art de L’Aia e Commendatore Nazionale delle Arti e delle Lettere in Francia, fu insignito di prestigiosi premi, dall’Architecture Award della Berlin Academy, al Grand Prize for Design assegnato dal Primo Ministro giapponese, all’UN-Habitat Scroll of Honor Award dell’ONU. L’architettura per Yona Friedman aveva un significato più etico e profondo del “costruire”.

Perciò, leggendo il fallimento di due utopie,  e cioè la democrazia e la comunicazione globale tra gli uomini, pensava a una utopia per tutti, e cioè, paradossalmente, a una società meno “utopistica”, meno “perfetta” e più libera. E dunque, specialmente negli ultimi anni, amava sperimentare con materiali poveri e riciclabili, anzi proprio con l’Unesco e le Nazioni Unite aveva elaborato una ventina di manuali di autocostruzione rivolti ai paesi dell’Africa, del Sudamerica e dell’India: manifesti da attaccare ai muri nei villaggi per insegnare agli abitanti a costruire la propria casa e migliorare le proprie condizioni di vita. Ne aveva trattato nel suo testo “The diluition of Architecture” (2015,a cura di Nader Seraj) scritto con Manuel Orazi, il principale studioso italiano di Friedman e curatore di una collana di architettura per l’editrice Quodlibet, che ha pubblicato in italiano tutti i libri di Friedman.

 

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Foto: artribune.com