Da solo rappresenta un caso diplomatico. Sì, perché László (o Ladislav, se si vuole) Kubala, origine slovacca e nascita ungherese, alla fine si è fatto adottare dalla Spagna e lì è diventato un mito, almeno per la tifoseria del Barcellona, che lo ha glorificato con una statua al Camp Nou. E, manco a dirlo, di maglie delle nazionali ne ha vestite ben tre, dapprima quella cecoslovacca, poi la magiara e, infine, la camiseta roja spagnola. Attaccante dagli eccellenti mezzi tecnici e con un fiuto del gol ben sopra la media, si è messo in luce nel Ferencváros, prima di oltrepassare la frontiera nel 1946 ed accasarsi allo Slovan Bratislava, salvo poi rimpatriare al Vasas Budapest nel ’48 e lasciarlo poco dopo per abbandonare definitivamente l’Ungheria, allo scopo di ricongiungersi con la famiglia, rimasta in Cecoslovacchia.

La fuga oltre confine gli costò una squalifica internazionale, finì per allenarsi in Italia a Busto Arsizio, con la Pro Patria, ma era destino che l’inquieto László di patria non ne avesse una. Si interessò a lui anche il grande Torino di Valentino Mazzola appena prima dello schianto fatale a Superga, ma alla fine chi riuscì nell’impresa d’ingaggiarlo nel ’51 fu il Barcellona, che non solo soffiò il fuoriclasse girovago ai detestati rivali del Real Madrid – che pure lo avevano adocchiato in un’amichevole disputata in Spagna tra i blancos ed una selezione di esuli dell’est Europa – ma, per di più, gli fece acquisire la nazionalità spagnola e si prodigò per la riduzione della squalifica, diminuita infatti ad un anno solo.

Statua di László Kubala davanti al Camp Nou di Barcellona

Di lì in poi la storia di Kubala registra un crescendo di successi personali e di squadra: con i blaugrana si aggiudica per ben quattro volte la Liga  e per cinque la Coppa nazionale, mette a segno 131 reti in 186 incontri ufficiali, nel ’58, dopo i disordini di Budapest, persuade i connazionali (di nascita…) Zoltán Czibor e Sándor Kocsis a raggiungerlo in Catalogna per assortire insieme un trio offensivo di straordinaria bellezza ed efficacia, in grado di competere più che degnamente con quello madridista composto da Puskás (il magiaro per antonomasia), Di Stefano e Gento.

Ancor oggi la tifoseria barcelonista lo annovera tra i più grandi di sempre ad aver militato nel club e, probabilmente, è proprio questo il più significativo insegnamento che la storia personale di Kubala può suggerire al lettore: un magnifico talento calcistico – che pure a livello di selezione nazionale non ha vinto alcunché, anche se non soprattutto a causa  della sue tribolate vicissitudini – ha ugualmente conosciuto il successo che meritava, per quanto lontano da casa. Ungherese o cecoslovacca che questa fosse.

László Kubala in azione

Quel che rende tale conclusione ancor più lampante è il contesto al quale è d’obbligo rapportarsi, quello leggendario dell’Aranycsapat, della ‘squadra d’oro’ prima sul podio olimpico di Helsinki nel 1952 e, poi, vicecampione del mondo appena due anni più tardi, in Svizzera. Di Kubala, in quello squadrone, non v’è traccia, eppure avrebbe meritato di esserci, vista la classe che lo contraddistingueva. Niente, gli almanacchi non lo menzionano per il semplice motivo che lui non ne faceva parte. Sebbene fosse indubbiamente ungherese di nascita, questo non gli bastò per legare il suo nome a quello della più luminosa pagina del calcio magiaro.

Poco male, forse perché era destino che László (o Ladislav, scegliete voi) dovesse diventare un campione pure senza altri campioni. Che László (o Ladislav, vedete voi) entrasse di diritto nella storia del calcio (non solo) ungherese anche senza figurare nella Nazionale che di quella storia ha scritto il capitolo più radioso. Ed era destino che László (o Ladislav, valutate voi) non avesse bisogno necessariamente di unire la sua sorte ad una patria per essere ricordato dai posteri. Perché la sua patria era il rettangolo verde.



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Foto: WikimediaCommons, Colgados por el Futbol, La Vanguardia