Quando Johann Joachim Winckelmann sintetizzò lo spirito dell’arte classica greca nella celebre definizione della “nobile semplicità e quieta grandezza” non sospettava minimamente che si sarebbe adattata alla perfezione anche ad un capolavoro calcistico, ammirato in terra d’Ungheria circa due secoli dopo. Flórián Albert, però, ha incarnato al meglio l’eleganza manifestatasi su un rettangolo verde. Lo stesso colore che, unito al bianco, ravvivava la divisa sociale del suo Ferencváros, club nel quale si mise in luce giovanissimo, al punto da convincere Lajos Baróti – successore di Sebes sulla panchina della Nazionale all’indomani della rivolta del ’56 – a convocarlo ancora diciassettenne per la selezione magiara. Testa alta, incedere armonioso, visione di gioco sopraffina e verticalizzazioni rapidissime, questo ragazzo già uomo veste la casacca n. 9 ma giostra a tutto campo, come Hidegkuti, anche se con più classe e determinazione.

Definire Albert l’epigono più illustre della generazione d’oro – quella della Aranycsapat dei vari Puskás, Kocsis, Bozsik ed Hidegkuti, tanto per capirsi – significa, però, fargli torto, perché è riduttivo. Albert è stato molto di più, al punto da meritare, unico tra gli ungheresi, il ‘Pallone d’oro’ nel 1967, precedendo assi del calibro di Bobby Charlton, Eusebio e George Best. Prima ancora aveva trascinato i suoi a conquistare due medaglie di bronzo, alle Olimpiadi di Roma del 1960 ed agli Europei spagnoli quattro anni dopo, laureandosi peraltro capocannoniere (seppure in coabitazione con altri cinque) in occasione del mondiale cileno del 1962.

Statua dedicata al campione magiaro a Budapest

Ma la vera epifania del genio assoluto di Albert doveva inevitabilmente celebrarsi in quella che, da sempre, è considerata la terra d’origine del football, l’Inghilterra. La cornice è quella prestigiosa della fase finale dei Mondiali del 1966, sebbene il sorteggio non sorrida all’Ungheria, chiamata a misurarsi, oltre che con la Bulgaria, col Brasile campione in carica di Pelé e col rampante Portogallo della ‘perla nera’ Eusebio, eletto ‘Pallone d’oro’ appena l’anno precedente. C’è di che far tremare le vene e i polsi a chiunque. Ma non ad Albert.

Con la tranquillità sulla quale solo un campione sicuro dei suoi mezzi può fare affidamento, il fuoriclasse magiaro risolleva i suoi dopo un infelice esordio con sconfitta per 3-1 contro i lusitani, guidando la riscossa, con identico punteggio, addirittura contro i brasiliani, seppur orfani dell’acciaccato Pelé. Il pubblico di Liverpool a fine gara applaude a scena aperta il centravanti magiaro, autore di una prova magistrale. Esemplare l’azione del gol che inchioda definitivamente il punteggio: Albert parte dalla propria metà campo con la sua tipica falcata ampia ed elegante, semina in slalom i verdeoro che lo ostacolano invano e, poco prima dell’area avversaria, adocchia ed innesca sapientemente Ferenc Bene, fermato solamente con un fallo in area, per la conseguente trasformazione su rigore di Mészöly. La folla lo osanna, decretandogli un trionfo simile a quello di un antico Cesare. Non a caso, visto che ‘l’imperatore’ è il soprannome che ha accompagnato Flórián nell’arco della sua carriera.

Albert Florian con il Pallone d’Oro

Il ruolino di marcia dei danubiani si arricchisce di un nuovo 3-1, stavolta ai danni della Bulgaria di Asparuhov, e tanto basta per eliminare sorprendentemente il Brasile e qualificarsi ai quarti, dove però la corsa ungherese si arresta di fronte all’URSS, vittoriosa per 2-1. Nemmeno questo, comunque, serve per dissolvere la memoria dell’irresistibile bellezza del calcio regalata a tutti da Albert nella patria del football, se a distanza di un anno si aggiudica ugualmente il ‘Pallone d’oro’. E senza aver vinto alcuna competizione internazionale con le maglie del Ferencváros o dell’Ungheria. Una ragione in più per capire quanto fosse bravo e bello a vedersi ‘l’imperatore’.

 



 

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Foto: machenesanno, hungarytoday, sportolunk, trivel