Articolo di Francesco Bonicelli Verrina

Imre Kertesz era nato nel 1929, a Budapest, da una famiglia del ceto medio ebraico ungherese. Deportato all’età di 15 anni, riuscì a spacciarsi per un ragazzo più grande, scampando così all’immediata esecuzione.

Sopravvisse all’Olocausto (termine che non gli piacque mai, come del resto la parola “shoah”, così come odiò per tutta la vita la parola “dissidente”), ad Auschwitz perse la famiglia, e l’esperienza del lager, con la dimensione di sopravvissuto, furono indubbiamente i due aspetti che più influenzarono la sua scrittura, fino a portarlo al Nobel per la Letteratura, nel 2002. Dimostrando uno sguardo indipendente, difficilmente catalogabile, fu egli stesso ad affermare, ritirando il premio: “Chi mai lo avrebbe potuto dire, che Auschwitz mi avrebbe portato al Nobel?!”, lanciando uno spiazzante, inaspettato e “scorretto” quesito al pubblico, sul proprio sconcertante e assurdo destino. Non a caso il suo maggiore romanzo, tradotto in moltissime lingue, rimane Essere senza destino, sull’esperienza del lager che si allarga a dimensione di vita, cui è costretto l’uomo contemporaneo e che non si risolve con la “liberazione”. Dallo stesso libro è anche stato tratto un film, del 2005, dal titolo: Senza destino.

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Imre Kertesz al ritiro del Premio Nobel a Stoccolma

 

Kertesz iniziò a scrivere nel 1948, all’alba del nuovo regime comunista, del quale sono testimonianze il romanzo surreale e picaresco Fiasco e il Diario dalla galera, vivendo lunghi decenni di emarginazione e oscurità carceraria, da cui non si sentì liberato dalla nuova democrazia ungherese (condusse una vita piuttosto nascosta, fino alla sua morte nel 2016, lo stesso anno in cui morì anche il più giovane Peter Eszterhazy, voce altrettanto provocatoria, enigmatica e affascinante della letteratura contemporanea ungherese, nonché discendente, diseredato dal regime, della maggiore famiglia dell’Impero, che non ci sorprende avesse dissipato fortune per allevare talenti come Liszt).

La diffusione in Italia dell’opera di Kertesz, come quella di diversi altri autori ungheresi, si deve in particolar modo ad un altro insigne sopravvissuto ungherese, naturalizzato italiano, Giorgio Pressburger, anch’egli scomparso, un anno fa.

Kertesz amò scrivere nella sua lingua, di cui si sentì cultore e prigioniero, allo stesso tempo, sognando di fuggire dalla sua “patria-prigione”, senza mai farlo, non si sentì più libero dopo la caduta del regime, sentì l’inquietudine del suo secolo e del nuovo millennio, che raccontò nei suoi diari, con sguardo profetico, usando una lingua che lo rendeva, a suo dire, esotico e inconoscibile al pubblico mondiale, l’unico che lo poteva amare, mentre, come ogni vero profeta, poco era considerato nel suo paese natale, la cui opinione pubblica fu generalmente ostile al suo Nobel. La sua lingua, lingua dei suoi carnefici, ma anche dei suoi modelli poetici, lo turbò sempre.

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Imre Kertesz con Viktor Orban

Kertesz non solo si spinse a definire l’università di Cluj-Napoca “reliquia dell’era nazista”, come altre università, per la presenza di storici negazionisti e giustificazionisti, non solo, contro corrente, fu sempre un tenace difensore della causa dello Stato di Israele, arrivando ad accusare di nazismo e antisemitismo persino intellettuali ebrei ungheresi, ma arrivò ad accusare l’intero mondo post-bellico di aver esteso e globalizzato Auschwitz, attraverso lo svuotamento di significato dell’uomo, la spersonalizzazione totale e la mercificazione di tutto, in cui tutti gli uomini sono diventati “pezzi”, illusi da numerose armi di distrazione di massa, dalle apparenze di benessere, pienezza e moltiplicazione delle possibilità, mentre la narrazione degli stermini di massa, dei lager e del nazismo è stata sapientemente confinata, stereotipata e scientificamente snocciolata, musealizzata, reificandola in qualcosa di fuori da noi e rinchiudendola a chiave nel contenitore della “Memoria”, illudendo che tutto si sia risolto lì e che poi siano arrivati i “buoni” a salvarci dagli “alieni”, in una lettura semplicistica che può commuovere anche addirittura chi sarebbe il nuovo carnefice, l’Olocausto ridotto a problema di coscienza, se non a canone estetico, per Kertesz.

Solo Benigni, per Kertesz, aveva saputo raccontare il non raccontabile, celandolo dietro l’assurdità di una bugia buona raccontata a un bambino, un inganno, che come tale fa intuire l’incommensurabile assurdità che nasconde.

Il nostro Io è del resto per Kertesz il più grande sconosciuto a noi stessi. Essere sconosciuto, chiuso sulla sua piccola barca a scrivere, questa la dimensione dichiaratamente ricercata da Kertesz, non bisogna aver paura di essere l’unico giusto di Sodoma, non bisogna avere pregiudizi, pare consigliarci Kertesz, ma nemmeno adeguarsi. Come Marai visse la vedovanza e con Marai tenne nei suoi diari una sorta di dialogo, come con Cioran, Camus e Kafka e numerosi altri autori a lui indubbiamente fratelli nello spirito. Kertesz si sentì sempre più solo, il successo avuto dopo il Nobel lo nauseò, solo fra i viventi, solitudine anche auto-imposta, nella quale si può scorgere, forse, una sublimazione del suicidio che si diedero altri autori sopravvissuti, come Borowski, Levi, Bettelheim e molti altri.

Che cosa mi distingue dalla classe media cristiana degli ungheresi? Per loro è molto importante distinguere se la persecuzione degli ebrei sia riconducibile al conte Pal Teleki, oppure al filonazista Szalasi; per me invece è praticamente indifferente: il risultato finale è sempre Auschwitz” (da Io, un altro, Cronaca di una metamorfosi).

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Tomba di Imre Kertesz a Budapest

La democrazia ha bisogno di ribadire il concenso ovunque e moltiplicarlo, non diversamente da qualsiasi regime, è ugualmente ideologizzata, uno non può far altro che diventare scettico o cinico e la vita si allontana sempre di più e la cerchiamo con il cannocchiale, denunciò Kertesz, nei diari raccolti nell’Ultimo rifugio. Romanzo di un diario. “L’Europa ha concepito Hitler e dopo Hitler non ha più avuto argomenti”, scrisse provocatoriamente Kertesz in quei diari, all’alba del nuovo millennio, non si può non sentirsi perennemente esuli in patria, esuli nel mondo, forse nell’universo, come il biblico Lot.

Non comprendere il mondo solo perché è incomprensibile è un atteggiamento dilettantesco. Il mondo non lo comprendiamo perché non è il nostro compito sulla terra” affermò in una sorta di misticismo agnostico, unico antidoto all’aberrante modernità desogettivizzante: “bisogna essere giusti, perché il mondo è ingiusto”. “La storia è la tentazione delle cose per mezzo di concetti sbagliati. La storia ha deviato dal sentiero dell’epica, l’analisi che ne ha preso il posto è una inutile chiacchiera ideologica. La storia non è scienza, è custode della memoria. In quanto scienza non ha niente a che vedere con l’uomo, è ambigua e superflua” “Ci si chiede dov’era Dio? Ma perché non lo lasciano in pace, Dio, questi rabbini e alti sacerdoti che stanno continuamente ad aggrapparglisi ai piedi? Se Dio è davvero quell’essere magnanimo che ha realizzato la Creazione, cosa poté significare per lui Auschwitz? Può essere che in quell’istante cosmico pensasse a tutt’altro”. Secondo Kertesz, agnostico, scettico, ostile ad ogni pregiudizio ideologico, Auschwitz non si può considerare uno scivolone della storia, un errore una tantum. Auschwitz è anche la debilitazione e l’atrofia galoppante odierna delle forze creatrici, in senso lato.

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Imre Kertesz in una conferenza in Svizzera

La realtà è per Kertesz l’opposto della teoria darwiniana: la controselezione è il principio naturale dominante. Sono i peggiori a dominare, quindi Auschwitz è ovunque, è la natura umana, è la dichiarazione dell’umanità, Hitler solo il prodotto di un momento storico.

Cosa salva l’uomo nell’ultimo diario kertesziano (Lo spettatore) da cui sono tratte le ultime citazioni? Il nostro compito di custodire ogni fiamma che ha alimentato il nostro fuoco, l’amore di un solo uomo ha la stessa forza dell’onnipotenza divina. Auto-escludersi dall’umanità allora diventa, come per Cioran, l’unica possibile e formidabile offesa, che il giusto, lo scosso, il ferito, l’uomo dialogante, può usare contro chi lo ha voluto escludere, da quella che Kertesz battezzò “globalizzazione ultraliberista totalitaria”, sentendosi, come forse Eco e pochi altri, un cittadino della Belle Epoque perduta, dell’Europa illuminista asburgica scomparsa.

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Foto: The New York Times, montevideo.com.uy, graves.mf.uni-lj.si, USA Today