Era l’estate del ’78, avevo dieci anni, la testa leggera di chi è appena andato in vacanza dalla scuola e, soprattutto, si accinge a vivere minuto per minuto il suo primo mondiale di calcio. In Argentina non era come da noi, lì faceva freddo, le maglie con le maniche lunghe ed i campi infangati dalla pioggia ne erano una prova visibile.

La mia Italia, con la freschezza sbarazzina di Paolo Rossi ed Antonio Cabrini, era capitata proprio con i padroni di casa, la Francia di Platini, specialista delle punizioni, e l’Ungheria. Ecco, proprio quest’ultima m’incuriosiva più di tutte, innanzitutto per i nomi strani e difficilmente pronunciabili, documentati da quella Bibbia tascabile del calcio settimanale che era il Guerin Sportivo: il difensore István Kocsis per me discendeva dal mitico capo indiano degli Apache, Cochise, il centrocampista Sándor Zombori mi creava problemi con l’accento (sulla prima o la seconda ‘o’?), Béla Váradi mi ricordava più un passato remoto che un’ala, la punta László Pusztai stabiliva il record di consonanti allineate di seguito (ben tre!) in un solo cognome, mentre András Törőcsik, giovane e promettente attaccante, per la zazzera lunga e bionda pareva imprestato al calcio da un gruppo pop svedese. Fantasie di bambino…

Tibor Nylasi, calciatore più rappresentativo della nazionale ungherese ai mondiali del ’78

Ma la ragione vera che mi spingeva ad interessarmi dei magiari era stata la ricostruzione storica particolareggiata di mio padre su uno dei calciatori danubiani, forse il più rappresentativo di quella selezione, ossia Tibor Nyilasi, ultimo modello ricalcato sul prototipo del centravanti di manovra o arretrato alla Hidegkuti. Papà mi spiegò che questa era stata la grande novità tattica dell’Ungheria dei tempi d’oro, quella della sua giovinezza e del mitico Ferenc Puskás, per intenderci.

Nulla sapevo di loro, così papà spese il pomeriggio del giorno precedente il confronto con gli ungheresi a raccontarmi la loro storia: l’oro olimpico del 1952 ad Helsinki, la finale persa per 2-3 a Berna contro la Germania ovest due anni dopo nel mondiale elvetico, gli altri due ori alle Olimpiadi di Tokyo e Città del Messico fra il ’64 ed il ’68. Insomma, un po’ per la narrazione paterna, un po’ perché la stampa italica si preoccupava dei magiari, che nelle qualificazioni avevano fatto fuori la temibile URSS di Blochin, li immaginavo molto pericolosi, quasi come i favoritissimi argentini, contro i quali avevano perso di misura (1-2) e, per di più, a pochi minuti dalla fine. Invece…

Invece fu una delusione completa. In primo luogo, perché l’Ungheria scesa in campo contro di noi a Mar del Plata vestiva un’anonima casacca bianca, in luogo di quella tradizionale rosso cupo; poi perché le migliori individualità come Nyilasi e Törőcsik, entrambi espulsi (forse un po’ troppo sbrigativamente…) per somma di ammonizioni contro gli argentini, erano costrette a passare la mano.

Noi, galvanizzati dal successo iniziale con la Francia per 2-1, appena dopo la mezz’ora mettemmo a segno l’uno-due risolutivo con Rossi e Bettega, agevolati dalle evidenti amnesie della retroguardia magiara. Un quarto d’ora dopo l’intervallo a Benetti sarebbe toccato triplicare, mentre solo con un rigore di András Tóth poco prima del 90’ gli ungheresi avrebbero salvato la faccia, ma non l’onore di essere i discendenti di una gloriosa tradizione calcistica. Peraltro, persero con lo stesso risultato anche con la Francia, mentre gli azzurri conquistavano la vetta del girone sconfiggendo l’Argentina con un assolo di Bettega.

Pagina del giornale sulla partita Italia-Ungheria 3 a 1

Ovviamente fui contento del passaggio del turno, un po’ meno di come si conclusero quei mondiali, che alla fine ci videro solo quarti a causa delle due sconfitte finali rimediate contro Olanda e Brasile, entrambe propiziate da tiri dalla distanza che Zoff nemmeno vide partire.

Un’altra nota amara, però, fu quella, del tutto personale, di non aver potuto ‘studiare’ per bene il centravanti arretrato alla Hidegkuti, le limitate apparizioni al mundial argentino dei magiari non erano affatto sufficienti per poter approfondire l’argomento.

Mi sarei dovuto accontentare di qualche fugace immagine rubata alle rubriche calcistiche sulle coppe europee, nei frettolosi commenti di cronisti non sempre avvezzi al calcio dell’est. Davvero troppo poco per capire la portata di quella che mi era stata presentata come una rivoluzione ‘epocale’.

 

 

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