Le parole sono importanti, si sa. Chiamare le cose con il proprio nome, o meglio, riconoscendo determinati fenomeni come tali, dando loro un significato è prassi quotidiana, qualcosa di scontato. Non tutte le parole sono uguali, e negare il riconoscimento, o l’uso di alcune espressioni, da quotidianità può diventare atto politico, con delle conseguenze.

Lo sanno bene l’Ungheria e la Polonia, che a livello comunicativo hanno un modus operandi sempre più spesso controverso, in tendenza opposta a quello dell’UE.

C’è un’area semantica, quella afferente alle questioni di genere e LGBTQI , particolarmente invisa al governo magiaro e polacco: in Ungheria infatti, un anno fa è stato approvato un emendamento della salátatörvény ovvero “legge insalata” – miscellanea di provvedimenti approvati in fretta, complice lo stato di emergenza – che ha reso di fatto la transessualità illegale, vietando la ratifica del sesso di nascita sui documenti e l’adozione da parte delle coppie gay.

Dalla vicina Polonia, la situazione non è dissimile: all’interno del Paese infatti, sono sempre più diffuse le aree LGBTQI-free con il benestare del Governo: tale fenomeno ha scatenato una reazione pari e contraria da parte dell’UE che in una risoluzione si è dichiarata zona di libertà LGBTQI.

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Manifestanti pro LGBTQI in Europa.

Tuttavia, L’Unione Europea continua a rimanere succube di queste dinamiche che strizzano l’occhio – neanche troppo velatamente – alle discriminazioni di genere: nell’ultimo Vertice Sociale tenutosi lo scorso 7 Maggio a Porto, in cui si è discusso di lavoro e occupazione,  competenze e innovazione, Stato sociale e protezione sociale, l’asse Budapest-Varsavia ha posto il veto proprio su di un testo contenente la tutela dell’uguaglianza di genere all’interno dei trattati di libero scambio tra Unione europea e paesi in via di sviluppo.

Come riportato dall’agenzia di stampa Reuters, nella versione finale della bozza è stato eliminato il  riferimento all’uguaglianza di genere: “Incrementeremo gli sforzi per combattere la discriminazione e lavoreremo attivamente per chiudere il gap di genere e per promuovere l’uguaglianza”.

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La copertina del Libro “Queer Budapest 1873-1961”

Ancora una volta, parole scomode vengono fatte sparire, in questo caso è toccato a quelle che si riferiscono alle persone LGBTQI ma in generale, in Ungheria, ormai è prassi: basti pensare all’ingerenza del Governo nelle Università, che ha scatenato molte proteste tra gli studenti, alle leggi molto intransigenti sulla libertà di stampa, e alla chiusura di alcune radio che usavano parole “di troppo”. Resta da chiedersi se questo davvero coincida con il tradizionalismo ed il conservatorismo di cui il governo magiaro si fregia, e questa lotta “semantica” indica che forse la via da cui riappropriarsi degli spazi, non solo politici, ma anche sociali e culturali.

Dall’anno della sua fondazione, nel 1873, fino al 1961, anno della decriminalizzazione dell’omosessualità in Ungheria, Budapest ha visto nascere e svilupparsi una nutrita scena queer, raccontata dalla penna di Anita Kurimay che, nel suo libro “Queer Budapest, 1873-196”  recentemente pubblicato, ripercorre  la storia della comunità LGBTQI , da sempre parte integrante, e fondante della Capitale, in cui ancora oggi, nonostante i vari tentativi di censure, sbocciano artisti della scena queer, arricchendone la scena  culturale del Paese: sarà l’arte a portare un messaggio di speranza e tolleranza in questo clima di conservatorismo sempre più oppressivo?



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Foto: Balassa Péter/Fortepan, Attila Kisbedenek/AFP via Getty Images